Mali: il terrore dopo il caos calmo

Mali: il terrore dopo il caos calmo

Quello al centro dell’attacco di oggi è un Paese ferito e diviso, dopo i fatti del 2012 e l’intervento francese. Così Eyoum Ngangué raccontava il Mali in un reportage pubblicato da Mondo e Missione utile per capire il contesto in cui si inseriscono i fatti di queste ore

 

Sino a pochi anni fa, questo enorme Paese del Sahel era considerato un’oasi di pace e uno spazio d’investimenti sicuro per capitali stranieri. «Il Mali era circondato da Paesi segnati dall’instabilità politica e dall’insicurezza. Ecco perché la capitale Bamako è diventata negli anni un polo di attrazione per riunioni internazionali in cui si discuteva del futuro dell’Africa occidentale o per investimenti sicuri», spiega Naffy Keita, professore all’Università di Bamako. Per molto tempo, la capitale maliana ha tratto beneficio da diversi programmi di sviluppo urbano: svincoli e ponti per rendere più scorrevole il traffico, realizzazione di una città-satellite, chiamata ACI 2000, con edifici e ville ultramoderne, e soprattutto la costruzione della gigantesca cittadella amministrativa in stile saheliano sulle rive del fiume Niger, offerta dal colonnello Muammar Gheddafi.

Questa situazione si è bruscamente interrotta il 12 gennaio 2012, quando un gruppo di tuareg – che si presentavano come ribelli del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) – hanno attaccato una guarnigione militare nel nord del Paese. Dopo tre mesi di guerra-lampo, l’Mnla riesce ad occupare i due terzi del Mali e proclama il 6 aprile 2012 l’indipendenza del territorio conquistato in nome della Repubblica dell’Azawad. Per lo scrittore Ousmane Diarra, questa rapida vittoria della ribellione sull’esercito regolare è facilmente spiegabile: «Dopo l’assassinio di Gheddafi e la caduta del suo regime nell’ottobre del 2011, oltre 600 tuareg maliani, che hanno servito come mercenari nell’esercito della defunta guida libica, sono tornati in Mali con armi e bagagli. Il loro arrivo nel nord del Paese ha cambiato gli equilibri di potere, in quanto si trattava di soldati agguerriti e il loro equipaggiamento era molto più moderno di quello dell’esercito maliano».

Ma questa lettura degli eventi non è condivisa da un gruppo di militari maliani che, durante l’avanzata dei ribelli tuareg, hanno accusato il capo di Stato dell’epoca, Amadou Toumani Touré (ATT), di non aver fatto nulla per fornire alle truppe le armi necessarie per affrontare i tuareg. Questo spiega il colpo di Stato condotto dal capitano Amadou Haya Sanogo il 22 marzo 2012, seguito, un mese più tardi, dalla creazione di un governo di transizione. Per una decina di mesi, il Mali si è ritrovato diviso in due: il Nord nella mani dell’Mnla e il sud controllato dal governo ad interim. Ma le notizie che arrivavano dal Nord non erano per nulla rassicuranti. I nuovi padroni di questa parte del Paese, infatti, erano stati a loro volta sconfitti da formazioni jihadiste venute da Algeria, Nigeria, Marocco, Sahara Occidentale e Niger. Gruppi come il Movimento per il jihad in Africa occidentale (Mujao), Ansar-Eddine e Al Qaeda del Maghreb islamico (Aqmi) – organizzazioni in qualche modo affiliate ad Al Qaeda – hanno potuto mettere in pratica quasi indisturbati le loro ideologie fondamentaliste. Hanno applicato la sharia (legge coranica), hanno commesso brutalità sulle persone e saccheggi e hanno provocato la distruzione del patrimonio culturale locale, in particolare di Timbuktu.Sin dallo scoppio della ribellione, inoltre, si è verificato un esodo di massa della popolazione verso il sud e i Paesi limitrofi (Burkina Faso e Niger soprattutto), che ha provocato una grave crisi umanitaria.

«Anche l’economia è stata pesantemente colpita – spiega Mamadou Konaté, Presidente della Camera di commercio del Mali – perché oltre ai disordini causati dal conflitto armato, la Comunità economica dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas) ha imposto della sanzioni contro Mali, a causa del colpo di Stato del capitano Sanogo». Non avendo un accesso alla mare, l’economia del Paese dipende da quella dei suoi vicini lungo la costa. L’accademico Naffy Keita spiega che le difficoltà economiche vissute dal Mali derivano anche dal fatto che «mentre gli investitori dei Paesi vicini cessavano di drenare le loro economie verso il Mali, anche i finanziamenti una volta inviati da Gheddafi si erano ormai prosciugati». Solo quando le sanzioni dalla Cedeao sono state revocate, l’economia del Mali che dipende per il 90 per cento dalle regioni meridionali – e che si basa essenzialmente sul settore informale, gli scambi transfrontalieri, la coltivazione del cotone (primo produttore in Africa) e lo sfruttamento delle miniere d’oro (terzo produttore africano) – è ripartita.

Mamadou Konaté della Camera di commercio continua: «Dal momento che il prezzo dell’oro è crollato, i grandi commercianti del Paese – per i quali questo metallo è sempre stato un bene-rifugio – hanno scelto di investire nel settore immobiliare. Ecco perché almeno l’edilizia è leggermente cresciuta». Ma questo piccolo miglioramento non riesce nasconde la grave crisi che continua a vivere un settore una volta pubblicizzato come alquanto promettente: il turismo. Le cifre a questo proposito sono eloquenti: il numero dei pernottamenti in camere d’albergo è passato da 336.876 nel 2001 a 82.399 nel 2012. «I voli charter sono stati annullati, migliaia di turisti che avevano programmato di soggiornare in Mali hanno cambiato destinazione», si lamenta la signora Sissoko, direttore generale dell’Ufficio del turismo del Mali (Omatho). Presso la Casa degli artisti a Bamako, l’atmosfera è mesta: «È un disastro. Produciamo oggetti d’arte che non sappiamo più come piazzare. Un tempo, da novembre a febbraio, i nostri negozi brulicavano di gente. Oggi, tutti i giorni sembrano domenica», si lamenta Allassane Touré, venditore di gioielli e maschere Tuareg.

Ma cosa è servito allora l’intervento francese dell’11 gennaio 2013, volto a respingere l’avanzata dell’Mnla e dei jihadisti verso sud? Per lo scrittore Ousmane Diarra, se la Francia non fosse intervenuta, Bamako sarebbe rapidamente caduta, perché l’esercito maliano non aveva mezzi per respingere queste orde di fanatici che avevano fatto rotta sulla capitale. Grazie a questo, il Mali ha potuto recuperare la sua integrità territoriale e la legalità istituzionale. I movimenti jihadisti sono stati decimati dalle truppe francesi e ciadiane e le regioni settentrionali sono potute tornare sotto l’autorità degli amministratori nominati da Bamako.

Si sono potute tenere elezioni presidenziali e legislative, rispettivamente nell’agosto e nel dicembre 2013. Ibrahim Boubacar Keita (IBK) è il nuovo capo di Stato eletto e il suo partito ha ottenuto la maggioranza nell’Assemblea nazionale. Le sfide del nuovo governo, tuttavia, sono enormi. Innanzitutto, si tratta di ricostituire la coesione nazionale, messa in discussione negli ultimi due anni dai diversi attori in campo: i separatisti tuareg contro il resto del Paese; i berretti verdi (militari responsabili del colpo di Stato del marzo 2012) contro i berretti rossi (rimasti fedeli all’ex Presidente, ATT); quelli a favore e quelli contro il Golpe; coloro che criticano l’intervento militare francese e coloro che lo sostengono…

Per ricomporre un Paese segnato da mille fratture, è stato istituito un Ministero della riconciliazione nazionale. Le sue competenze completano quelle della Commissione di riconciliazione e dialogo (Cdr), che era stato creato a fine aprile 2013 (leggi qui la testimonianza di Fabio Pipinato, cooperante dell’Ipsia di Trento, sui risultati che questo processo di pace aveva raggiunto in queste settimane). Il Presidente, Mohamed Salia Sokona, è consapevole che la sua missione non sarà facile: «Il Mali ha toccato il fondo negli ultimi due anni, ci vorranno ingenti risorse per risalire la china». Con gli altri membri della Commissione, ha percorso in lungo e in largo le regioni ferite dalla guerra e raccolto le opinioni di molte persone: «A maggioranza musulmani, i maliani si appoggiano alla loro fede per perdonare. Ma affinché simili eccessi non si ripetano in futuro, il perdono senza la verità e la giustizia non ha senso».  

COLONIALISMO 2.0

Ex ministro della cultura, scrittrice e militante altermondista, Aminata Traoré è un’intellettuale maliana, che non ha peli sulla lingua. Della situazione del suo Paese ha una lettura chiara: «Questi sono i risultati dei programmi di aggiustamento strutturale imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario negli anni Novanta, che hanno indebolito gli Stati africani, al punto che non possono avere eserciti in grado di difendere il proprio territorio. È il caso, in particolare del Mali e di altri Paesi del continente», denuncia.  Per lei, l’intervento militare di un’ex potenza coloniale, cinquant’anni dopo l’indipendenza, è la prova che il mondo cammina al contrario: «Nel caso del mio Paese, si tratta di un neo-colonialismo senza complessi da parte della Francia». La cosiddetta offensiva dei ribelli e dei jihadisti verso il sud del Paese nel gennaio 2013 sarebbe stato un pretesto per l’esercito francese per occupare il Paese e sfruttare al meglio le sue risorse: «C’è in questo intervento un forte odore di petrolio e uranio – sottolinea la Traoré -. Si vedono forse bandiere francesi nelle strade di Bamako un anno dopo l’operazione Serval?», chiede. «Un anno fa, migliaia di maliani hanno ringraziato François Hollande. Oggi, abbiamo capito che è più per gli interessi della Francia in Mali che il Presidente francese ha inviato le sue truppe. Infatti, sempre più manifestazioni nelle strade di Bamako chiedono alla Francia di chiarire il suo rapporto con la ribellione dell’Mnla che Parigi sembra proteggere». Queste teorie vengono sostenute anche nel suo ultimo libro, scritto a quattro mani con Boubacar Boris Diop, La gloire des imposteurs (la gloria degli impostori, Editions Philippe Rey) uscito in Francia.