Mauritania, il Paese degli schiavi

Mauritania, il Paese degli schiavi

C’è ancora un Paese al mondo dove la vita da schiavi inizia prima di aprire gli occhi al mondo. Fin dal ventre materno, se la donna è schiava, anche suo figlio è destinato a esserlo.

 

Siamo in Mauritania, una terra desertica nell’Africa occidentale, dove vivono 4 milioni di persone, di cui 43 mila sono in schiavitù, secondo le stime del Global Slavery Index 2016 della Fondazione Walk Free. Ma in realtà potrebbero essere molti di più. «Le stime sono difficili», spiega Ivana Dama, vicepresidente della sezione italiana di IRA (Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista), che lotta con strategie non violente contro questo fenomeno. «Non si conosce esattamente il numero, perché le persone che nascono schiave non sono registrate all’anagrafe e non hanno diritto ai documenti». Resta il fatto che su una popolazione composta all’82 per cento da diverse etnie nere e al 18 per cento da arabo berberi, la minoranza ha il potere e continua a sfruttare una parte dei neri con il sistema della schiavitù.

«Pur essendo stata abolita nel 1981 e inserita anni fa nel codice penale come reato, la schiavitù in Mauritania resta difficile da sradicare», commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. L’organizzazione ha accolto da poco con soddisfazione la notizia della liberazione, nel gennaio scorso, di Abdallah Abu Diop, uno dei 13 attivisti del movimento IRA arrestati tra giugno e luglio 2016 in seguito a una manifestazione pacifica di difesa di un quartiere di haratin, la maggioranza nera, che il governo voleva abbattere. Dei tredici, al momento ne restano in carcere ancora due.

Il governo di Mohamed Ould Abdel Aziz, al potere dal 2008 con un colpo di stato, non è tenero con il movimento creato nel 2009 da Biram Dah Abeid. La sua storia del leader di IRA è emblematica delle sorti della popolazione nera. Figlio di una coppia haratin libera, ha scelto di lottare per difendere chi non lo è. «Il nonno di Biram è nato libero, anche se sua madre era schiava», racconta Ivana Dama. «Il padrone ebbe un malore mentre la schiava era incinta e uno stregone disse che regalando la libertà al bambino, sarebbe guarito». Un retaggio di consuetudine tribale ha salvato il nonno e i suoi discendenti da una schiavitù certa. Sia la maggioranza haratin, sia gli arabo berberi sono di religione musulmana. Nella versione locale, di scuola malikita, gli studiosi di diritto islamico continuano a sostenere la legittimità della schiavitù, assicurandole il consenso della religione. È un elemento importante: è più facile dominare chi crede che il suo destino sia volere di Allah, e non degli uomini. «Avere uno schiavo assicura uno status sociale di prestigio», dice Dama. Ed è un vantaggio economico per chi lo possiede. Tutti i lavori pesanti ricadono sulle sue spalle, non c’è orario di lavoro, nessuna paga è dovuta. I bambini schiavi non hanno diritto di andare a scuola e le donne sono l’anello debole della catena. «Sono trattate come oggetti, non come persone. Una schiava è spesso violentata dal padrone, che la mette incinta per avere un altro schiavo, la presta agli amici o la cede a un figlio».

Nell’aprile 2012, Biram Dah Abeid ha voluto lanciare un messaggio chiaro: non è l’Islam a prevedere la schiavitù, ma solo l’interpretazione che ne viene data in Mauritania dagli ulema. Per farlo capire, ha bruciato sulla pubblica piazza della capitale Nouakchott i testi apologetici della schiavitù. Il gesto è costato la galera a lui e ad altri attivisti dell’IRA, ma non ha fermato Biram, che da allora entra ed esce dalle prigioni. Senza esserne intimorito: nel 2014 si è candidato alle elezioni presidenziali, ottenendo il 10 per cento. «Un grande risultato, se si pensa che la Mauritania non è un Paese libero. E nel 2019, Biram ha intenzione di riprovarci», dice Dama. Nel frattempo, viaggia per l’Africa e l’Occidente per far conoscere al mondo cosa sta succedendo in Mauritania. Ha incontrato persino il presidente Obama, e il numero di simpatizzanti occidentali del movimento abolizionista si sta allargando.

«Le pressioni internazionali sul governo sono scarse e incostanti, purtroppo», commenta Noury. «La lotta al terrorismo e l’esigenza di contrastare l’immigrazione verso l’Europa fanno del governo mauritano un interlocutore importante. Pertanto, il rispetto dei diritti umani finisce in secondo piano. Si parla poco, per esempio, del caso di Mohamed Sheikh Ould M’khetir, il giovane blogger mauritano condannato a morte per aver insultato il profeta nel 2014 perché aveva osato criticare il sistema della schiavitù. Il processo è ancora aperto. C’è anche un cittadino italiano che è detenuto dal 2015 in Mauritania, per una vicenda poco chiara. Si chiama Cristian Provvisionato e si era recato nel Paese africano su incarico della sua azienda, come tecnico informatico». Il giovane è tenuto come ostaggio, per una presunta truffa subita dalle autorità, in cui il lavoratore non avrebbe alcuna colpa.