Sognando Rio

Sognando Rio

Tegla Loroupe è stata una leggenda mondiale della maratona. Ora sogna di scrivere una nuova pagina della storia dell’atletica. Portando ai Giochi Olimpici di Rio una squadra di rifugiati

 

Il fisico esile, il sorriso timido. Ma dentro si vede che ha un filo d’acciaio. Anche oggi che ha abbandonato le competizioni, Tegla Loroupe resta una grande campionessa, tenace e combattiva: per i diritti, la pace e la libertà.

Tegla è una leggenda nel suo Paese, il Kenya, e nel mondo intero. È stata la prima donna africana a vincere la maratona di New York nel 1994, bissata l’anno successivo. Nel suo palmarès ci sono molte altre vittorie e record mondiali sulle lunghe distanze. Lei ha sempre “viaggiato” dai 5 mila in su. Con ambizioni grandi e non solo sportive. Dal 2003, infatti, ha creato la Tegla Loroupe Peace Foundation, che promuove iniziative di sport e solidarietà. Con una grande ambizione per questo 2016: portare otto rifugiati ai Giochi Olimpici di Rio. Atleti che, relegati nei campi profughi per via delle condizioni disperate dei loro Paesi di origine, mai avrebbero avuto la possibilità di allenarsi, competere e sognare addirittura le Olimpiadi. «Questi giovani atleti sono miei fratelli», dice Tegla, con lo sguardo franco e pulito. Sembra ancora quella ragazzina alta poco più di un metro e mezzo che, con i suoi quaranta chili scarsi, metteva dietro tutti con una falcata irresistibile. Si muove quasi in punta di piedi nel giardino della Shalom House di Nairobi, un centro che pullula di attività e iniziative, creato da un comboniano italiano: padre Kizito Sesana. Qui ha sede la Fondazione di Tegla, mentre sulle alture di Ngong, nella dépendance di un’altra casa realizzata dal missionario, la Anita’s Home per bambine di strada, è stato ricavato il campus in cui soggiorna e si allena un gruppo di rifugiati.

«Hanno talento – dice Tegla -, ma le situazioni drammatiche dei loro Paesi non permettono di sviluppare le loro potenzialità. Per questo oggi sono qui con me». Sono 24 dai 17 ai 23 anni, ragazzi e ragazze. Sono originari di Sud Sudan, Somalia e Repubblica Democratica del Congo, ma tutti vivevano nei campi profughi di Kakuma o Dadaab. Con loro si allenano 6 keniani. E keniani sono i coach, coadiuvati da un tedesco. Lei stessa, Tegla, ogni tanto si unisce agli allenamenti. «Cerchiamo di creare un contesto di vera fratellanza – dice -. Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri».

L’obiettivo sono le Olimpiadi, ma non solo: «È il loro futuro come persone a 360 gradi che ci interessa. Per questo offriamo loro anche l’opportunità di studiare, oltre che di allenarsi. Garantiamo un pocket money, che non è molto, ma che permette loro di aiutare anche le famiglie rimaste nei campi profughi. E poi diamo loro la possibilità di allenarsi in modo più “professionale” e “formale”, prendendosi tutto il tempo necessario perché possano crescere come dei veri atleti. Attualmente almeno cinque sono pronti per le Olimpiadi, per gli 800 e i 5 mila metri, uno per la maratona. Ma pensiamo che almeno otto si possano qualificare».

Rappresentanti del Comitato internazionale olimpico (Cio) sono venuti in Kenya per verificare il lavoro della Fondazione, a Nairobi e nei campi profughi. E hanno deciso di supportarlo. Così come sosterranno la partecipazione degli atleti ai Giochi di Rio, dove saranno presenti anche altri rifugiati provenienti in particolare da Siria, Iran e Iraq. Tutti sfileranno dietro la bandiera del Cio, subito dopo la nazionale brasiliana.

James Niyak Jal, 25 anni del Sud Sudan, brillano gli occhi solo a sentir parlare di Giochi Olimpici. «Ma non è solo questione di Rio – dice, mostrando di avere i piedi per terra -. Siamo qui per sviluppare il nostro talento, abbiamo bisogno di motivazioni e di imparare come allenarci». Lui, come Pur Biel Yech, 21 anni, è stato “scovato” nel campo profughi di Kakuma, nel Nord semidesertico del Kenya, un’enorme distesa di casupole e tende con circa 180 mila rifugiati, in gran parte del Sud Sudan, ma anche di Etiopia, Eritrea, Somalia, Burundi, Uganda, Ruanda, Repubblica Democratica del Congo e altri Paesi ancora… Alcuni sono lì da decenni, altri vi sono nati. La maggior parte non sa se riuscirà mai ad andarsene. Un pezzo d’Africa alla deriva. Da cui Tegla e la sua Fondazione sono riuscite a estrarre e valorizzare alcune perle preziose.

«Sono arrivato a Kakuma quando avevo cinque anni – racconta Pur -. Sono scappato insieme a mio fratello. Un altro, invece, è dovuto fuggire recentemente, per la guerra civile che è scoppiata a fine 2013. Ora si trova in un campo in Etiopia. Io sono sempre vissuto a Kakuma. Ho frequentato la scuola lì, ma non c’erano le strutture e l’organizzazione per praticare sport in modo serio. A me però piaceva correre…».

Garkuoth Puok Thiep, 24 anni, viene da Bentiu, una delle zone del Sud Sudan più devastate dalla guerra. È scappato nel 2005, dopo che suo padre era stato ucciso. La madre e la sorella, invece, sono morte nel 2011, in seguito all’esplosione di una bomba, proprio mentre lui era lì con loro. Era tornato a trovarle, con il sogno di un Paese che diventava finalmente indipendente, ma non necessariamente in pace. «La voglia di correre mi è venuta vedendo in televisione Paul Tergat. È il mio idolo e il mio esempio!», dice Garkuoth che sta coltivando il suo talento per la mezza maratona. Garkuoth ha conosciuto Riek Ukuei Yoo, 25 anni di Malakal, nel campo di Dadaab, nel distretto semiarido di Garissa. Due volte l’inferno di Kakuma. Dadaab, infatti, è il più grande campo profughi al mondo, che ospita dalle 350 alle 450 mila persone, in gran parte dalla Somalia. Come Mohamed Daud Abubaka, 27 anni, che è scappato dal suo Paese nel 2000 e si è ritrovato prima a Dadaab e poi a Kakuma, dove vivono ancora la sua famiglia e i suoi tre bambini.

Un’altra storia incredibile è quella di Gaston Nzazumukiza, 23 anni, del Sud Kivu, nell’Est della Repubblica Democratica del Congo. È fuggito dopo che hanno sterminato la sua famiglia. E ha attraversato da solo l’immensa regione dei Grandi Laghi per ritrovarsi dall’altra parte dell’Africa, nel campo di Kakuma. «Mi piace lo sport – racconta timidamente -, ma in Congo era impossibile praticarlo. Ho fatto una gara nel campo profughi. Gli altri erano sudsudanesi. Sembravano tutti più forti di me. Ma sono arrivato terzo e mi hanno portato qui».

Gaston e Mohamed si preparano per l’allenamento serale. Sulle colline di Ngong la luce si fa via via più morbida, e accarezza queste alture verdeggianti che secondo la leggenda masai rappresentano le nocche del loro dio creatore. Nel frattempo tornano le ragazze: sono tre attualmente, tutte del Sud Sudan, ma si stanno facendo nuove selezioni. La Fondazione vorrebbe offrire maggiori opportunità anche alle donne, nonostante le resistenze (anche culturali) che incontrano.

La stessa Tegla ricorda la forte contrarietà del padre nel vederla andare a scuola e correre invece di consacrarsi alle tradizionali occupazioni femminili. Originaria del West Pokot, regione al confine con l’Uganda, Tegla è nata in una famiglia molto tradizionale, dedita alla pastorizia. Il padre aveva quattro mogli e 24 figli. Per andare a scuola, ricorda, doveva percorrere circa dieci chilometri, andata e ritorno. Ma la scuola le ha permesso di scoprire anche le sue doti atletiche: «Ho cominciato a fare delle gare e mi sono resa conto che mi piaceva competere. E anche vincere!», ricorda colei che a casa era stata soprannominata Chametia, “quella che non si annoia mai”, un’iperattiva, insomma. Ma la vittoria più difficile è stata quella contro la resistenza del padre. Che solo dopo molti anni – e molti successi – ha riconosciuto le sue grandi doti. «Per fortuna – dice ora Tegla – avevo un carattere forte e non l’ho ascoltato!». Cosa per nulla scontata per una femmina in una grande famiglia poligama pokot. Questa sua determinazione, ma anche il senso della giustizia e dei diritti, l’hanno guidata nelle sue molteplici iniziative non solo a favore degli atleti rifugiati, ma per la promozione della pace, dell’istruzione e dell’unità.

Nel suo distretto, ha creato una scuola primaria specialmente rivolta ai bambini più vulnerabili: quelli che rischiano di diventare piccoli soldati, i figli di sfollati e profughi, gli orfani di Aids che subiscono anche un forte stigma sociale, o le bambine che vengono penalizzate nell’accesso all’istruzione o possono subire l’orrore delle mutilazioni genitali. Nella scuola di Tegla – che sogna di costruire anche un istituto secondario – si studiano non solo le materie curricolari, ma si impara anche a crescere nella tolleranza e nel rispetto dell’altro. Facendo pure molto sport. «La pace è il respiro del mondo – dice con convinzione -. Dove non c’è pace si muore sia nel corpo che nel cuore». Anche per questo, a partire dal 2003, organizza ogni anno le Peace Race, le corse della pace, a Moroto in Uganda, e in Kenya, nel distretto del Tana River e nella sua regione, a Turkwee e a Kapenguria, il capoluogo del West Pokot. Per dire no, attraverso lo sport, alle varie forme di guerra e conflitto, che interessano Paesi e comunità. Ad esempio, mettendo insieme agricoltori e pastori o promuovendo azioni per il disarmo volontario dei guerrieri appartenenti alle tribù locali. Per questo suo impegno, lo scorso marzo è stata insignita del “Father John Kaiser Human Rights Award”, un premio che fa memoria di un sacerdote americano, ucciso nell’agosto del 2000, perché aveva denunciato il coinvolgimento di importanti autorità governative negli scontri tribali nella Rift Valley. Sulla stessa linea di questo coraggioso missionario, considerato un martire della giustizia, Tegla è impegnata anche in situazioni molto difficili del Corno d’Africa, dal Darfur al Sud Sudan, dove ha conosciuto la drammatica condizione di molti bambini sfollati, nati e cresciuti in un contesto di guerra. Gli stessi che ha ritrovato nei campi di Kakuma e Dadaab e a cui ha dato una chance straordinaria. Di sognare Rio, ma soprattutto di costruirsi un futuro in dignità e libertà.