Con le suore uccise è già Pasqua nella Penisola Arabica

La morte delle Missionarie della Carità con gli occhi dei cristiani del Golfo Persico e della gente di Aden, che protesta in nome loro. La storia di sister Anselm, che prima dello Yemen era già stata tra le vittime della guerra in Iraq e in Giordania. E le suore di Madre Teresa che in tutto il mondo stanno pregando anche per chi ha ucciso le loro consorelle
È già Pasqua nel Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale. È già Pasqua perché – come tutti gli anni – per poter celebrare il mistero più grande con tutte le comunità cristiane straniere che affollano le pochissime chiese tra gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen, il vescovo Paul Hinder è costretto a cominciare già in Quaresima con le veglie pasquali. Ma è Pasqua soprattutto perché quanto accaduto venerdì ad Aden – con il martirio delle quattro suore di Madre Teresa insieme a dodici altre persone, nella casa dove si prendevano cura di 61 anziani e disabili – ha reso presente proprio nella Penisola Arabica il mistero della passione, morte e resurrezione di Gesù. A sottolineare questo legame profondo tra il martirio delle suore e la Pasqua è stato proprio il vescovo Paul Hinder, nell’omelia di una di queste celebrazioni. In un passaggio rilanciato in un video proposto sul canale YouTube del vicariato il presule svizzero – che da molti anni ormai serve queste comunità formate da centinaia di migliaia di lavoratori stranieri giunti dall’Asia e dall’Africa per lavorare nella Penisola Arabica, in condizioni durissime – parla della scelta delle suore di restare ad Aden, nonostante i pericoli ben conoscevano. «Avevo chiesto loro che cosa intendevano fare in questa situazione di guerra – dice mons. Hinder -. E senza nessuna esitazione avevano risposto: rimarremo, non possiamo abbandonare i nostri pazienti, fa parte dei nostri voti donare la nostra vita se necessario. Qual è – si chiede mons. Hinder – la sorgente di questa decisione così risoluta, che molte persone potrebbero considerare semplicemente folle? Perché mentre molte delle persone che ne hanno la possibilità fuggono via dal paese le suore hanno deciso di rimanere? Penso che abbia a che fare con la celebrazione del mistero pasquale che stiamo vivendo oggi. Le suore hanno scelto che esisteva una dimensione più importante della nostra vita terrena». È già Pasqua nella Penisola Arabica. E lo è anche nella geografia in qualche modo già trasfigurata di queste comunità cristiane del Golfo Persico. Sister Anselm, sister Margherite, sister Reginette e sister Judith – le quattro suore uccise – venivano dall’India, dal Rwanda e dal Kenya. Indiano è anche padre Tom Uzhunnalil, il salesiano rapito durante il massacro di cui non si hanno più notizie. Indiano è l’altro sacerdote che resta nello Yemen, come pure sister Sally, la superiora delle Missionarie della Carità di Aden che nascondendosi in un frigorifero è riuscita a scampare al massacro. E poi ci sono gli etiopi: da questo altro martoriato Paese africano venivano cinque delle altre vittime della strage, immigrati che lavoravano insieme alle suore al servizio degli anziani e dei disabili. Non è un caso che – sul sito del Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale – subito dopo il telegramma di cordoglio del Papa compaia quello dell’arcivescovo di Addis Abeba, il cardinale Berhaneyesus D. Souraphiel. «Le Missionarie della Carità della beata Teresa – scrive – hanno diciotto case in Etiopia, dove il loro servizio ai più poveri tra i poveri è molto amato e rispettato da tutti. È duro pensare che ci siano persone che vogliono fare loro del male o ucciderle, come accaduto ad Aden».
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