A un anno dal tentato golpe, i giornalisti continuano a essere nel mirino del regime. Ma anche insegnanti, magistrati, dipendenti pubblici… Chiunque, da un giorno all’altro, può finire in galera accusato di spionaggio, terrorismo, tradimento
«Sono 263 i giornalisti arrestati. Altri 105 si sono resi irreperibili, su di loro pende un mandato di arresto. Il governo ha chiuso circa 200 fra televisioni, giornali, siti». A quasi un anno dal presunto colpo di stato del 15 luglio 2016, la libertà di stampa e di espressione nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan continua a essere un miraggio. Ogni voce di dissenso è stata messa a tacere, trasformando il Paese nel più grande carcere per giornalisti al mondo.
A denunciare la situazione è Abdullah Bozkurt, giornalista turco, già responsabile dell’edizione inglese del quotidiano Zaman. Il suo giornale, che era il più diffuso in Turchia, è stato dapprima commissariato, poi chiuso con decreto governativo a luglio 2016. Da allora, Bozkurt vive in esilio forzato a Stoccolma. Insieme ad altri colleghi, ha creato lo Stockholm Center for Freedom, un centro che ha l’obiettivo di promuovere il rispetto della legge, la democrazia e i diritti umani in Turchia, attraverso il lavoro dei giornalisti, che puntano a informare il resto del mondo su cosa sta realmente accadendo nel Paese.
I rapporti pubblicati dal centro, disponibili sul loro sito raccontano di sparizioni, torture e maltrattamenti da parte della polizia. Qualsiasi cittadino è una potenziale vittima: basta essere sospettati di terrorismo, di collusione con il movimento di Fetullah Gülen, con i curdi o con la sinistra per finire in galera. «Lo stato d’emergenza dichiarato dopo il colpo di Stato ha portato alla sospensione dei diritti fondamentali – commenta Bozkurt -. Negli ultimi mesi, 50 mila persone sono finite in prigione. Fra di loro ci sono giudici, insegnanti, professori universitari, dipendenti pubblici». Non ci sono categorie esentate: sono finiti nel mirino anche operatori di Borsa, avvocati – è stato arrestato pure Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia – lavoratori della compagnia aerea Turkish Airlines e persino membri del corpo diplomatico. «Se i giornalisti fuggono all’estero per non finire in prigione, vengono arrestati i loro familiari. È una situazione mai vista e che non si può tollerare».
Dopo il referendum del 16 aprile scorso, i poteri del Presidente saranno notevolmente ampliati a partire dalla prossima legislatura (novembre 2019): sarà anche capo del governo e verrà eletto direttamente dal popolo. Una deriva autoritaria all’orizzonte? «La Turchia è già una dittatura, c’è già un regime autoritario», commenta Bozkurt.
Come in tutti i regimi, il giornalismo investigativo non è tollerato. Lo dimostra la vicenda di un altro giornale importante, Cumhuriyet, e del suo ex direttore, Can Dündar. Anche lui, come Bozkurt, ha dovuto scegliere la via dell’esilio: attualmente vive in Germania. Nel maggio 2015, alla sede di Istanbul del quotidiano giunge un video che mostra un camion dei servizi segreti turchi fermato dai gendarmi alla frontiera con la Siria. Sotto gli scatoloni di medicinali, sono nascoste armi. Qualcuno dice che sono per i turkmeni, ma questi ultimi smentiscono. Bombe, granate e mortai sono destinati allo Stato Islamico. È una notizia clamorosa e i vertici di Cumhuriyet decidono di pubblicarla, ben sapendo il rischio che corrono. Erdogan tuona subito in televisione contro il direttore: «La pagherà cara!». Una denuncia contro Dündar viene sporta dallo stesso Presidente. L’accusa è spionaggio. Il direttore e il caporedattore dell’edizione di Ankara finiscono in galera.
Questa vicenda è raccontata dallo stesso Can Dündar nel libro Arrestati, appena uscito anche in italiano (pubblicato da Nutrimenti), scritto in parte a mano durante i mesi trascorsi nella super prigione per oppositori politici di Silivri. Il giornalista racconta i suoi tre mesi in questo carcere che può sembrare di lusso: una cella pulitissima a due piani, nessun maltrattamento. Ma con l’isolamento usato come arma, che può condurre alla follia. Dündar è stato coraggioso, ma anche fortunato: ha riacquistato la libertà (e il suo passaporto) nel febbraio 2016, grazie alla Corte Costituzionale. Qualche mese dopo, con il tentato golpe, la sua situazione avrebbe potuto prendere un’altra piega. Un anno dopo il suo arresto, nel novembre 2016, il suo successore Murat Sabuncu, è finito dietro le sbarre insieme ad altri undici colleghi, cui si è aggiunto a maggio scorso il direttore del sito di Cumhuriyet.
«Questa situazione ha un impatto anche sui giornalisti stranieri – dice Bozkurt -. Sono gli ultimi rimasti a poter scrivere liberamente; la stampa turca è ormai addomesticata. Il caso di Gabriele Del Grande e di Mathias Depardon dimostrano, tuttavia, che neppure i giornalisti stranieri sono esenti da rischi». L’italiano e il francese sono stati liberati, ma Deniz Yücel, corrispondente del quotidiano Die Welt, con doppia cittadinanza turca e tedesca, è ancora detenuto.
Le critiche e le rimostranze internazionali non sembrano avere effetto sulle autorità turche. Cosa può fare l’Occidente? Abdullah Bozkurt non ha dubbi: «Solo le sanzioni economiche possono forse sortire qualche effetto».