LA RIFLESSIONE
Non sono venuto in Cambogia per portare una dottrina, per imporre una legge o delle pratiche rituali, per circoncidere qualcuno, ma per «rappresentare al vivo Gesù Cristo crocifisso»
Hill è una giovane donna cambogiana che a breve si consacrerà a Dio per tutta la vita. È una persona semplice, vulnerabile, ma pronta a consacrarsi. Qualche giorno fa mi confidava le sue paure. L’ho incoraggiata dicendole che la Grazia di Dio è con lei. Che non è sola perché Cristo la abita, per la fede e nella fede. In questi frangenti però non bastano le parole. Si è posti di fronte al cristianesimo che accade e che vuole manifestarsi per quello che è: un’eccedenza di vita che non possiamo darci da noi stessi, ma solo ricevere come dono. Perché viene dal sacrificio di Cristo.
La lettera ai Galati è infatti attraversata da questa preoccupazione: sostenere che Cristo non è morto invano. Che la salvezza, la pace, la pienezza di vita vengono dal Suo sacrificio, dalla Sua morte in croce e non da una esperienza solo umana. Perché se la giustificazione e la comunione con Dio derivassero dall’obbedienza alla legge, da una capacità solo umana di vivere secondo i precetti della legge di Israele, e non quindi dal sacrificio di Cristo sulla croce, allora questi sarebbe morto invano, inutilmente. La lettera, con il suo andamento denso e a tratti violento, è un grido appassionato, concitato e nervoso, con il quale Paolo ha fretta di difendere la necessità, la dignità del sacrificio di Cristo di fronte a quei Galati che tanto facilmente erano tornati alle pratiche della legge, prima fra tutte l’obbligo della circoncisione. In modo a dir poco irriverente, infatti, Paolo prende le distanze da Pietro, «l’apostolo dei circoncisi» (Gal 2,8), e presenta se stesso come colui al quale il Signore ha «affidato il Vangelo per i non circoncisi» (2,7). Cioè per tutti coloro che sono fuori Israele, per i non circoncisi appunto, o per le Genti, ovunque possano trovarsi e che ancora non conoscono il Vangelo di Gesù Cristo. Per l’apostolo di Tarso la giustificazione e la salvezza non vengono dal «vivere alla maniera dei Giudei» (2,14), ma dalla fede, dall’adesione a Cristo che è morto per noi e per tutti, non solo per un popolo o una razza.
In questa tensione fra Pietro e Paolo, o tra i Giudei e le Genti, la legge e la fede, i circoncisi e i non circoncisi, si nasconde anche il senso della mia vita e vocazione e della vita e vocazione di Hill. Non sono venuto in Cambogia per portare una dottrina, per imporre una legge o delle pratiche rituali, per circoncidere qualcuno, ma per «rappresentare al vivo Gesù Cristo crocifisso» (3,1). Così Hill non si consacra per una dottrina, per una legge, ma perché l’annuncio del Vangelo ha generato Cristo in lei.
In uno dei passaggi più densi della lettera Paolo descrive questo processo di annuncio e generazione con un’immagine molto pregnante, quella delle doglie del parto. Paragona infatti la sua missione a quella di una madre che sta per partorire, come se la missione fosse una lunga gravidanza e un incessante parto. «Di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (4,19) – scrive Paolo – a dire che la sua missione non ha a che fare con l’imposizione di una legge, ma con la generazione di una vita, quella di Cristo nel cuore dei credenti. I viaggi, gli incontri e gli scontri, le botte subite, i fallimenti e la continua inarrestabile tensione all’annuncio hanno solo questo obiettivo: «Finché non sia formato Cristo in voi!», ovvero generare Cristo nella vita delle genti. È altrettanto evidente nella lettera che questa comprensione del proprio compito nasce da un’esperienza personale di fronte alla quale la circoncisione o la non circoncisione, la razza o la cultura perdono il loro valore obbligante e si aprono alla relazione con il Mistero da cui tutto proviene. L’incontro con il Risorto, la conversione e la chiamata hanno avuto per lui una conseguenza paradossale: non la costrizione ma l’esplosione della sua personalità, fino alla totale conformazione a Cristo: «Sono stato crocifisso con Cristo – scrive Paolo – e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede …» (2,20). Prima che dottrina o legge morale, il cristianesimo è Cristo che vive in noi. Paolo ha fretta di dire questo. La sua controversia con Pietro e con i Galati ha lo scopo di non perdere questa verità e di riportare in quota il cristianesimo non come una dottrina ma come una Persona viva. Che vive in noi. Per questo, nella lettera ai Galati, come in tutte le altre lettere, la libertà di Paolo è di fatto empatia con Cristo, che compie ogni suo desiderio. Più intenso è il legame con Cristo e più Paolo si sente libero, contento, e capace di farsi «tutto a tutti» (1 Cor 9,22).
Ho trovato in Dante Alighieri le parole più adeguate per esprimere una simile empatia tra le persone, e con Dio. A proposito dell’incontro tra Dante e lo spirito di Folchetto di Marsiglia, descritto nel IX Canto del Paradiso (IX, 79-81), il poeta vorrebbe un’intimità, un’empatia tale da auspicare di entrare nel “tu” di Folchetto, «s’io m’intuassi», e Folchetto nell’“io” di Dante, «come tu t’inmii». Solo questo consentirebbe di compiere ogni desiderio, di rispondere ad ogni domanda. Scrive Dante: «Perché non satisface a’ miei disii? / Già non attender’io tua dimanda, / s’io m’intuassi, come tu t’inmii». Sono neologismi perfetti per descrivere la speranza di ogni relazione. Come per Dante che, impaziente di ottenere risposte ai propri disii, chiede di «intuarsi» nel “tu” di Folchetto e viceversa. O come per Hill per la quale la fede e la consacrazione significano «intuarsi» nel “Tu” divino che è Cristo. E viceversa.