L’arcivescovo di Port Moresby (Papua Nuova Guinea), John Ribat, è uno dei cardinali delle periferie voluti da papa Francesco. Così rilegge i cinque anni di Pontificato: «Nel mondo le periferie ci sono sempre state, ma adesso davvero ci sentiamo accettati da tutta la Chiesa»
Tra i segni più significativi che hanno scandito i cinque anni dall’elezione di papa Francesco – che ricorrono proprio oggi – c’è il fatto di aver portato tra i cardinali del Sacro Collegio presuli provenienti dalle periferie della geopolitica mondiale. Su 61 nuovi cardinali creati da Bergoglio nei quattro concistori tenuti fino ad ora, ben quindici provengono da Paesi che nella loro storia non avevano mai avuto un porporato. Dal Burkina Faso ad Haiti, dal Myanmar al Salvador tante Chiese per la prima volta sono state portate nel cuore della Chiesa universale, con pari dignità. In particolare l’Oceania, grazie a papa Francesco, oggi ha ben quattro cardinali elettori, un fatto mai avvenuto nella storia della Chiesa.
Proprio per questo abbiamo chiesto al cardinale John Ribat di Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, di commentare con Mondo e Missione la ricorrenza dei cinque anni di Pontificato di papa Francesco. Il cardinale Ribat ha 61 anni ed è un religioso della Congregazione dei Missionari del Sacro Cuore di Gesù. Arcivescovo di Port Moresby dal 2007, guida la comunità cristiana della capitale in un Paese di 8 milioni di abitanti, dove i cattolici sono poco più di un terzo della popolazione. È stato creato cardinale da Bergoglio nel Concistoro del 19 novembre 2016.
Cardinale John Ribat, quali parole e quali gesti l’hanno colpita di più in questi cinque anni di Pontificato?
«Il suo sguardo sulla Chiesa è davvero rivolto alla Chiesa intera. Per papa Francesco è molto importante che tutti stiano insieme. Non vuole che ci si concentri solo su una porzione di Chiesa, vuole una visione globale. Guarda alle periferie, a quelli che sono stati lasciati fuori per troppo tempo. Un’altra attenzione che mi colpisce molto è la sua preoccupazione per l’ambiente e per coloro che soffrono. Gli effetti del cambiamento climatico in Papua Nuova Guinea sono già visibili nei cambiamenti drammatici a cui assistiamo quotidianamente, con l’innalzamento del livello del mare e i mutamenti nelle temperature e nelle piogge. Su questo il Papa parla dell’urgenza che I Paesi che godono di un’abbondanza di risorse si facciano carico di queste situazioni e aprano le porte a chi è nel bisogno. Le sue parole sono un incoraggiamento e una sfida che mi aiuta a continuare ad andare avanti nel mio ministero».
Come ha reagito la Chiesa locale alla scelta di papa Francesco di creala cardinale, il primo nella storia della Papua Nuova Guinea?
«Ho ricevuto tanti messaggi di congratulazioni non solo dalla Papua Nuova Guinea, ma da tutto il mondo. L’impatto di questa nomina è stato enorme: è stata accolta bene da tutti. L’intera nazione si è sentita coinvolta e onorata per questa scelta del Papa».
Papa Francesco mette il tema delle «periferie» al centro ad ogni livello: che cosa dice questo atteggiamento al mondo di oggi?
«Nel mondo le periferie ci sono sempre state e noi siamo sempre stati fedeli alla Chiesa; ma eravamo avvertiti come molto lontani e forse non ci ascoltavamo nemmeno tanto a vicenda. Questa scelta di papa Francesco di aprire la porta e permettere un incontro più pieno per noi è una grande opportunità. Possiamo contribuire anche noi in qualche modo alla vita della Chiesa. La sua insistenza sulle periferie ci rende consapevoli del fatto che siamo accettati da tutta la Chiesa, siamo riconosciuti e portati al centro. Siamo parte della Chiesa e della comunità internazionale e questa è una cosa grande».
Con le sue parole e I suoi gesti che cosa dice papa Francesco alla missione?
«Ci incoraggia a riconoscere la Chiesa come pienamente viva in Cristo. Questa è la sua missione. E una Chiesa viva è una Chiesa che esce per stare con la gente e per la gente».
Se a partire dalla sua esperienza quotidiana in Papua Nuova Guinea dovesse suggerire al Collegio dei cardinali una sfida specifica, che cosa indicherebbe?
«La sfida principale è portare l’ecumenismo nella mentalità della gente. Come cattolici noi abbiamo il nostro modo di vivere, come pure le altre Chiese, ma rischiamo sempre di rimanere distanti. Il passo più importante oggi è portare ciascuno a vivere insieme in uno spirito di comunione. Abbracciare tutti e vivere con tutti. È per questo che il Papa sottolinea la sfida dell’ecumenismo e la necessità per tutte le Chiese di lavorare insieme»