Pime Harlem aspettando il Papa

Viaggio a New York, in una parrocchia del Pime a East Harlem, accanto alla scuola che Francesco visiterà il prossimo 25 settembre. Mondi migranti, che cercano di integrarsi negli Usa e tra di loro

Uscire dal metrò tra la Lexington e la 110a significa entrare in un altro mondo. Come spesso succede a New York, vivono fianco a fianco pezzi di pianeta. Che si mischiano, certo, ma che impongono anche al territorio una loro impronta ben precisa. Qui, all’angolo tra una delle grandi arterie che tagliano verticalmente Manhattan – la Lexington appunto – e la perpendicolare che si spinge verso l’East River, la 110a, colpiscono innanzitutto i volti, la parlata, gli odori… Se si tiene lo sguardo ad altezza d’uomo, siamo in America Latina. Se lo si alza, torna a essere New York. Ma, in fondo, sono l’una e l’altra cosa insieme.

East Harlem è il quartiere dei portoricani e dei messicani. Ma non solo. «Siamo come le dodici tribù d’Israele!», scherza padre Vijay Marmeni, missionario indiano del Pime trapiantato a New York, dove è parroco di una delle missioni più sorpendenti dell’istituto un’“estrema frontiera” nel cuore della città più cosmopolita del pianeta. Qui, nella parrocchia di Sant’Anna, ci sono immigrati provenienti da almeno una dozzina di Paesi diversi, soprattutto caraibici e latinoamericani, con qualche presenza di africani ed europei, in particolare italiani…

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Del nostro Paese restano tracce soprattutto nell’architettura della chiesa, nata originariamente proprio come parrocchia di don Orione per gli emigranti italiani. Che ora sono praticamente spariti da questo quartiere. Quelli che sono venuti dopo hanno lasciato, a loro volta, il segno. E così, accanto alla statua di sant’Anna, varie Madonne, con varie decorazioni, sono venerate ad angoli diversi della chiesa, con un posto d’onore per Nostra Signora di Guadalupe. «Ho dovuto trasferire diverse statue in una cappella, altrimenti la chiesa ne sarebbe stata ingombra», spiega padre Vijay, mentre ci mostra una stanza angusta affollata di santi. Anche così non è che la chiesa sia propriamente spoglia, anzi…

A suo modo, con queste sovrapposizioni di stili, racconta storie complesse di migrazioni, incontri, culture e religiosità. Al centro delle quali, oggi, sta il Pime. Pure lui, con il suo specifico. Padre Vijay, originario di Hyderabad, è arrivato qui, passando per le Filippine dove ha studiato teologia, e il Messico dove ha imparato lo spagnolo, la lingua più parlata nel quartiere (e che ormai contende il primato all’inglese nell’intera New York!). Con lui c’era, sino a poco tempo fa, un missionario camerunese, con studi in Italia, sostituito attualmente da un italiano, padre Giorgio Ferrara, con esperienza in Giappone. Sono in arrivo “rinforzi”, ma per un’altra “città nella città”, Chinatown, nella parte meridionale di Manhattan, in cui è prevista una nuova presenza, quella di padre Marco Brioschi, attualmente a Taiwan per rinfrescare il cinese, dopo un’esperienza nelle Filippine.

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«Quando sono arrivato qui nel settembre del 2011 ho pensato che non avrei potuto viverci», racconta padre Vijay, che a fatica riesce a star fermo qualche minuto. Ci sono le comunioni da preparare su due diverse domeniche, più la festa di Sant’Anna, che qui non è uno scherzo: una Messa dopo l’altra, più la processione con banda, stendardi, statua e tutto il resto e, ovviamente,  l’immancabile rinfresco con musica latina. È da poco passata la festa dell’indipendenza di Porto Rico (che oggi fa parte degli Stati Uniti come “territorio non incorporato”) e ancora si vedono in giro bandiere sventolanti ad ogni angolo, per non parlare dei profumi di cibo messicano che salgono dal cortile… E, intanto, due signore italiane e il marito di una di loro si lanciano in saluti e abbracci con un marcato accento italo-americano.

È difficile immaginare che questa chiesa e l’annessa casa parrocchiale fossero, sino a pochi anni fa, in uno stato di semi abbandono. «Carenza di preti anche qui – commenta padre Vijay -; per questo, l’arcivescovo di New York ha chiesto al Pime di venire in questa parrocchia. Non solo, però: ci ha chiamati anche perché siamo un istituto missionario, che ha nel suo carisma quello di “andare alle genti”. Ed è quello che facciamo tutti i giorni qui, anche se siamo a New York».

È una frontiera umana e culturale, più che geografica, quella che interpella i missionari del Pime nel cuore della Grande Mela. Dove le sfide non sono meno grandi e urgenti che altrove: povertà, violenza, disgregazione familiare, difficoltà di integrazione, mancanza di lavoro, secolarismo, pregiudizi e conflitti, anche all’interno della stessa comunità cattolica. «Quando sono arrivato, i portoricani consideravano Sant’Anna la loro parrocchia. Ho detto che questa era la parrocchia di tutti. Ma c’è voluto parecchio tempo perché venisse accettato», racconta padre Vijay, che ha dovuto addirittura sciogliere i gruppi giovanili, perché avevano una forte impronta nazionale ed erano arrivati addirittura a scontrarsi.

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Del resto, il quartiere non è dei più tranquilli e non mancano forme diverse di disagio e degrado. E se oggi è più vivibile che in passato, sono ancora presenti criminalità e violenza. Anche perché, qui come altrove, gang di trafficanti gestiscono il mercato della droga e spesso si scontrano tra di loro. «Inoltre – spiega – East Harlem è una specie di entry point negli Stati Uniti. Molti nuovi immigrati passano di qui. Cercano di regolarizzare la loro posizione, poi si trasferiscono altrove, in zone più benestanti. Noi li aiutiamo anche per ottenere i documenti. Ci sono molte persone che non li hanno e questo le rende estremamente vulnerabili anche per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo. È una delle forme di vicinanza e solidarietà che cerchiamo di mettere in campo». Solidarietà che, però, non si limita entro i confini del quartiere, ma si apre al mondo e in particolare all’India, dove Sant’Anna è “gemellata” con un’omonima parrocchia nella diocesi di Eluru, inaugurata lo scorso febbraio.

«Siamo una parrocchia “povera” rispetto al contesto di New York – dice padre Vijay -, ma facciamo quello che possiamo per aiutare quelli che sono più poveri di noi». Queste due dimensioni, locale e globale, convivono all’interno della comunità cristiana di East Harlem, non solo per le origini diverse dei suoi abitanti, ma anche per questa apertura al mondo prettamente “missionaria”. Padre Vijay, poi, ha attivato una rete di supporto alla parrocchia prima totalmente inesistente. Cominciando, lui stesso, a dare il buon esempio. «Mi piace molto fare lavoretti qua e là», ammette. E in effetti lo si vede spesso trafficare con cacciaviti e martelli,  aggiustare una lampada o issare un festone…

Attualmente, si tratta di “dettagli” se paragonati all’incuria di quando è arrivato. «Ero un po’ scoraggiato. Sembrava che tutto cadesse a pezzi. Non restava che rimboccarsi le maniche». Lo ha fatto lui per primo e la gente lo ha seguito. Molti hanno contribuito con donazioni, altri con il lavoro volontario. «Ciascuno ha fatto quello che poteva e così siamo riusciti a restaurare l’intera chiesa con le nostre sole forze». Questo ha contribuito a creare un maggior senso di comunione in questo mix di popoli che si ritrovano a vivere insieme in un contesto molto diverso da quello di origine. Oggi la parrocchia è molto vivace e dinamica. La gente si sente sempre più “a casa”, grazie anche all’attenzione che padre Vijay dedica alle persone e al loro vissuto, senza dimenticare che sono tutti chiamati – lui pure – a integrarsi in questo nuovo mondo, in cui hanno scelto di vivere. «Non dobbiamo dimenticarci che siamo negli Stati Uniti e dunque non dobbiamo rinchiuderci in un ghetto reale o simbolico, che sia linguistico o culturale. È in questo Paese che, come cittadini e come cristiani, siamo chiamati a vivere e a dare il nostro contributo. Ecco perché tengo molto, nel rispetto della cultura e della lingua di origine della maggior parte dei miei parrocchiani che è lo spagnolo, a celebrare la maggior parte delle Messe in inglese. Non è semplicemente una questione linguistica, è un modo per sentirsi parte di questo Paese».

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Oggi nella parrocchi di Sant’Anna si celebrano cinque Messe la domenica (con circa 800 fedeli che vi partecipano), un centinaio di battesimi l’anno, una sessantina di comunioni e altrettante cresime. Il punto “dolente” sono i matrimoni, che si limitano a due-tre all’anno. «Non è solo una questione culturale – spiega il missionario -; spesso, le coppie hanno reali problemi economici. Io cerco di sensibilizzare soprattutto le donne, perché sono le più attente e anche le più impegnate nei gruppi parrocchiali. Ma sulla questione dei matrimoni c’è ancora molto da lavorare… Spesso molto si gioca nelle relazioni personali».

Proprio per questo, padre Vijay ha deciso di lasciare il suo numero di telefono all’ingresso della chiesa «in modo che chiunque possa contattarmi direttamente. Prima – dice – il rapporto con il prete era filtrato dalla segreteria o da altri collaboratori. Ma questo creava una distanza troppo grande tra il sacerdote e i parrocchiani. Ridurre questa distanza è per me un obiettivo importante. Sono convinto che questo possa contribuire a consolidare il senso di comunità. E qui ne abbiamo proprio bisogno».

 

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