L’ultimo film di Kim Ki-duk “Il prigioniero coreano” racconta la paradossale vicenda di un pescatore che oltrepassa il confine per sbaglio e il suo doppio destino di vittima dei servizi segreti di Seul e di Pyongyang
Dalla guerra di Corea a oggi, più di 30 mila nordcoreani sono scappati verso il Sud capitalista alla ricerca di una vita migliore. «Andarsene non è facile», così scrive sul sito di RTE Alexander Dukalskis, ricercatore all’università di Dublino, che ha intervistato numerosi disertori. «Di solito i fuggitivi pagano un intermediario per raggiungere la Cina. Una volta lì, la loro situazione è precaria: se vengono presi dalle autorità cinesi, verranno rispediti a casa. Alcuni cercano di raggiungere un Paese terzo, dove possono presentarsi a un consolato o a un’ambasciata sudcoreana. Il passo successivo è la stessa Corea del Sud. Quando le autorità nordcoreane scoprono che qualcuno è scappato, tuttavia, la sua famiglia è soggetta a ispezioni e sorveglianza intensiva». E non è raro che i parenti di un disertore finiscano in un campo di prigionia. Come ha detto Kim Il-sung, il “grande leader” fondatore della Corea del Nord e nonno dell’attuale capo di Stato Kim Jong-un, «il seme dei nemici di classe, chiunque essi siano, deve essere estirpato per tre generazioni». Di fatto, tutta la famiglia di un traditore, dai genitori ai figli, potrebbe essere chiamata a pagare per lui.
È questo lo scenario da tenere presente per comprendere il film Il prigioniero coreano del regista sudcoreano Kim Ki-duk, presentato a Venezia due anni fa. Complice l’attenzione mediatica suscitata dalle ultime Olimpiadi invernali e dalle mosse del giovane dittatore del Nord sullo scacchiere internazionale, le due Coree sono tornate sotto i riflettori. Una congiuntura perfetta per proporre nei cinema italiani, dal 12 aprile, questa pellicola che ha il pregio di raccontare, in maniera semplice e avvincente, la storia di un disertore per sbaglio. Il protagonista è un pescatore nordcoreano di nome Nam Chul-woo. Vive in una modesta abitazione a ridosso della zona di confine con la moglie e la figlia, e grazie a una barca, acquistata a prezzo di grandi sacrifici, si guadagna da vivere. Una mattina come tante, lascia felice la sua casa per andare a pesca, superando i controlli delle guardie di confine. Lo attende un imprevisto: la rete si attorciglia intorno all’elica, il motore si ferma e la corrente trascina l’uomo nelle acque del Sud, dove viene fermato dai soldati nemici. Consegnato ai servizi segreti, Nam finisce tra le grinfie di un agente pieno di livore nei confronti dei nordcoreani, che durante la guerra hanno trucidato i suoi familiari. Imbevuto di patriottico nazionalismo, l’inquisitore è pronto a usare violenza per far confessare a chiunque di essere una spia comunista. Il pescatore è l’esatto contrario di quanto ci si aspetta: non è un disertore, è finito al Sud per errore e supplica i suoi carcerieri di lasciarlo tornare a casa dalla moglie e dalla sua bambina, che teme possano essere prese di mira dalle autorità nordcoreane, come famigliari di un traditore.
Una delle parti più interessanti del film è il tentativo, da parte dei sudcoreani, di trasformare lo sfortunato pescatore in un disertore vero, inducendolo in tentazione con l’opulenza della vita a Seul. In fondo, è quello che cercano tutti i comunisti in fuga: negozi traboccanti di merci, vestiti alla moda, cibo in abbondanza. «Ti aiuteremo, potrai risposarti e rifarti una vita», gli spiega un’impiegata sudcoreana. Esiste un programma specifico che fornisce ai fuggitivi casa, soldi e strumenti per ricominciare da zero. Ma Nam non si piega. Anzi, chiude gli occhi per non guardare, come Ulisse che si fa legare per non cedere all’incanto delle sirene. Nam non vuole vedere il Sud, perché sa che – qualora potesse ritornare a casa – dovrà dimostrare ai servizi segreti comunisti di non essere stato contaminato dal capitalismo. In effetti, è quello che succede. Il pescatore rientra da eroe al Nord, ma solo per finire vittima di altri inquisitori, che vorranno fargli confessare misfatti che non ha commesso.
Il prigioniero coreano è un film che non si schiera. A Nord c’è la dittatura, a Sud c’è la democrazia, ma entrambi i governi sono sinistramente simili nell’opera di demonizzazione reciproca. Per i sudcoreani, tutti i comunisti hanno subito il lavaggio del cervello della dittatura; per i nordcoreani, tutti i capitalisti sono tutti corrotti. L’ingenuo Nam non riesce a capire. Perché la gente del Sud ha la libertà e non è felice? La risposta gliela fornisce una giovane prostituta: perché è un Paese in cui non è facile vivere se non hai i soldi. Una regola che vale in tutto l’Occidente. Nel contempo, chi vive nell’abbondanza, spreca e getta fra i rifiuti ciò che può essere ancora usato. Questo è il messaggio del regista, che è anche sceneggiatore. «Più forte è la luce, più grande è l’ombra», spiega al pescatore l’unico agente sudcoreano che simpatizza con lui. La libertà non garantisce la felicità. Tuttavia, la democrazia consente una possibilità di critica che al Nord non esiste.
Il titolo originale del film – The Net – allude alla rete del pescatore, ma anche alle reti ideologiche che imprigionano ancora due popoli fratelli, che parlano la stessa lingua e condividono secoli di storia e di cultura. L’immagine della stretta di mano fra Kim Yo-jong, sorella di Kim Jong-il, e il presidente sudcoreano Moon Jae-in nel febbraio scorso è un piccolo auspicio per una pace che, dopo quasi settant’anni, tarda ancora ad arrivare.