Ha già provocato almeno 130 morti la campagna del governo di Dacca contro il dilagare del traffico di metanfetamine. Una «tolleranza zero» che – come quella delle Filippine – adotta senza troppi scrupoli il metodo delle esecuzioni extragiudiziali
Un’ondata giustizialista sta attraversando l’Asia, dove la democrazia e diritti sono in regressione e regimi di diverso stampo autoritario si sono imposti negli ultimi anni in diversi Paesi. Le ricadute sulle società sono evidenti, come pure un’erosione dello Stato di diritto. In Thailandia, dove un colpo di stato militare ha riportato indietro per l’ennesima volte le lancette di una democrazia che stenta a farsi largo in una società feudale e paternalistica, o nelle Filippine, dove il mito dell’ “uomo forte” si è rinnovato nell’ultimo biennio sotto il presidente Rodrigo Duterte. Tra le iniziative di quest’ultimo – intollerante verso ogni opposizione interna e ogni avvertimento internazionale – la repressione della tossicodipendenza portata avanti finora con oltre 10mila morti e decine di migliaia di incarcerazioni, complici polizia e apparati dello Stato sollecitati da benefici o intimiditi con la forza.
Ora però i metodi della “guerra alla droga” di Duterte stanno diventando popolari in altri Paesi funestati da traffico e uso diffuso di stupefacenti. In Indonesia, ad esempio, dove anche la pena di morte per gli spacciatori ha dimostrato di essere di scarsa deterrenza, o il Bangladesh che con le Filippine condivide un governo poco tollerante verso le opposizioni e pronto a giustificare le sue azioni repressive anche con l’intenzione di non lasciare spazio a istanze estremiste, sia religiose, sia ideologiche, potenzialmente disgregatrici.
Per la prima volta, nei giorni scorsi anche le Nazioni Unite hanno preso posizione per confutare i metodi con cui il governo bengalese sta cercando di contenere la diffusione degli stupefacenti. Nel documento firmato dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein e diffuso il 6 giugno, si condannano apertamente le esecuzioni extragiudiziali di sospetti trafficanti e spacciatori e si chiede alle autorità di Dacca di fermare immediatamente pratiche repressive illegali e di assicurare alla giustizia i responsabili.
Al Hussein ha segnalato la propria “grave preoccupazione” per “l’uccisione di un elevato numero di individui” e per la reazione del governo “che è stata anzitutto di rassicurare l’opinione pubblica che nessuno degli uccisi fosse innocente e che nell’impegno contro la droga possano anche esserci errori”.
“Errori” come almeno una parte dei 130 morti che le Nazioni Unite hanno indicato come vittime dalle forze di sicurezza nelle tre settimane precedenti. Una campagna di “tolleranza zero” annunciata per affrontare il dilagare degli stupefacenti e in particolare delle metanfetamine che ha concretizzato almeno 13mila arresti nello stesso periodo. Si calcola che nell’ultimo decennio la quantità di droghe sintetiche sequestrata in Bangladesh in arrivo soprattutto dal Myanmar sia cresciuta vertiginosamente e che tra sette e dieci milioni di bengalesi, su 170 milioni complessivi siano tossicodipendenti.
“Non c’è dubbio che il traffico e la vendita di narcotici illegali porti sofferenze enormi a individui e intere comunità, ma esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari e l’emarginazione di persone che utilizzano queste sostanze non sono la risposta”, ha ricordato l’Alto Commissario. Per questo Al Hussein ha chiesto alle autorità “di adottare una politica nazionale che sia in sintonia con gli obblighi del Paese secondo le leggi internazionali per i diritti umani e le convenzioni internazionali sugli stupefacenti, in modo da assicurare il pieno rispetto del diritto alla salute di chi ne fa uso”.