Pakistan, il populismo islamico di Imran Khan

Pakistan, il populismo islamico di Imran Khan

A un mese dalle elezioni politiche a Islamabad i sondaggi danno per favorito l’ex campione di cricket, fautore di una moralizzazione della vita pubblica dalle forti connotazioni islamiche

 

A un mese dalle elezioni politiche in Pakistan, in programma per il 25 luglio, appare sempre più chiara la crisi dello schieramento al potere negli ultimi anni, centrato sulla Lega musulmana del Pakistan (N), che fino al suo esautoramento dalla scena politica decretato per corruzione dalla Corte suprema era guidata da Nawaz Sharif.

Contemporaneamente, sembra profilarsi il “sorpasso” del  Pakistan Tehreek-e-Insaf che assicurerebbe la guida del governo al suo leader, l’ex campione di cricket e ex playboy Imran Khan, da tempo fautore di una moralizzazione della vita pubblica dalle forti connotazioni islamiche.

Più che una campagna per definire le tante priorità del Paese che vanno emergendo con chiarezza in campagna elettorale – come pure i suoi limiti a partire da corruzione, nepotismo e paternalismo – quella di Khan è infatti una campagna “contro”: contro la Lega, contro la politica autoreferenziale e la personalizzazione finora dominanti, contro il controllo sempre più stretto dei militari secondo una tradizione che “chiama” le forze armate a inserirsi nei vuoti di potere politico e sovente (come avvenuto per la metà della storia del Pakistan dall’indipendenza a oggi) a gestire direttamente il Paese.

Quello che promette il Pakistan Tehreek-e-Insaf – che ha una forte base soprattutto tra l’etnia pashtun, seconda del Paese, e nella provincia occidentale di Khyber Pukhtunkhwa, strategica perché confinante con l’Afghanistan – è “l’alba di una nuovo Pakistan che non sia più governato dalla corruzione”. “I giochi della mafia sono finiti”, recita uno degli slogan più in voga del partito; mentre un altro è “fermateci se potete!”.

A rendere ancora più interessante il percorso verso il voto del 25 luglio, è il fatto che si tratterebbe della seconda volta in cui il Paese cambia regime in modo democratico dal 2013. In sé sarebbe un segnale positivo, ma pochi ignorano che sarà possibile solo se il Pakistan si avvierà al voto in una situazione di stabilità ritenuta accettabile dal potente apparato militare, tradizionalmente inviso ai radicali islamici ma anche ai gruppi non confessionali, come il Partito del popolo pachistano che fu di Benazir Bhutto e che fatica a recuperare consensi dopo la disfatta nelle elezioni di cinque anni fa che portarono al governo Nawaz Sharif.

A rischio, poi, sono anche gli investimenti stranieri, necessari per una nazione dove l’instabilità e l’arretratezza sociale impediscono di approfittare della posizione geografica e delle risorse, a partire da una popolazione di quasi 200 milioni di abitanti che ne fa la seconda nazione musulmana al mondo dopo l’Indonesia. Miliardi di dollari di origine straniera, in maggioranza cinesi, sono investiti in infrastrutture e iniziative produttive, con il rischio evidente di una dipendenza da Pechino, che guarda al Pakistan come a una zon strategica per contrastare la vicina e rivale India e il suo controllo crescente sull’economia afghana.

Sul tappeto ci sono anche i rapporti con il vicino indiano, sempre problematici e resi sovente acuti dalla comune disponibilità di un vasto arsenale nucleare. Fulcro della discordia, il Kashmir di fede in maggioranza islamica conteso tra i due Paesi; ma dfonte di tensioni sono anche il sostegno di Islamabad ai gruppi militanti operanti nella regione, oltre che l’influenza che il Pakistan avrebbe sulla consistente minoranza musulmana in India.

Un governo di tendenza islamista più accentuata dovrebbe necessariamente aprire un dialogo con i Talebani, anch’essi perlopiù espressione del nazionalismo pashtun. Una prospettiva che inquieterebbe ancora di più i vicini e indubbiamente anche Washington che, se sostiene con fondi, armi e truppe il governo di Kabul, continua a accusare il Pakistan di fare il doppio gioco: aperto all’alleanza con l’Occidente per le sue necessità ma vicino ai gruppi jihadisti interni e stranieri per necessità strategiche e fede.