Con una base per l’addestramento dei militari locali – premessa a una presenza che si prospetta in futuro ben più significativa – Pechino guarda ai suoi interessi geopolitici. Ma nessuna ingerenza militare esterna ha mai avuto vita facile a Kabul
La Repubblica Popolare Cinese ha dato avvio alla costruizione in Afghanistan di un campo per l’addestramento dei militari locali. La sede è nel cosiddetto Corridoio di Wakhan, una sottile striscia di territorio che si allunga per 350 chilometri tra Pakistan e Tajikistan dalla provincia afghana del Badakshan alla frontiera cinese, che tocca solo per un brevissimo tratto ma che proprio per questo è di grande importanza strategica. La ragione ufficiale di un progetto totalmente finanziato da Pechino starebbe nella necessità di una migliore cooperazione tra i due Paesi per favorire la stabilità dell’area. A dare una base sul piano internazionale alla presenza cinese in Afghanistan è la partecipazione dell’Afghanistan, con il ruolo di osservatore, all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, blocco per la sicurezza regionale guidato dalla Cina e nato nel 2012 a cui partecipano sei Paesi.
Tuttavia a regime è prevista la presenza di almeno un battaglione dell’Esercito di liberazine popolare, ovvero centinaia di militari in grado di agire in perfetta autonomia e piena capacità bellica se necessario: si tratta dunque di una presenza che non ha un significato puramente simbolico.
Pechino da un lato guarda, infatti, al problema interno costituito dalla minoranza musulmana degli Uighuri, tradizionalmente maggioritaria nella grande provincia autonoma dello Xinjiang, confinante con Paesi islalmici dell’Asia centrale e, appunto, con l’Afghanistan. Qui Pechino teme un contagio integralista ma allo stesso tempo prosegue la repressione dell’identità locale e persegue una politica di integrazione tra forti tensioni. D’altra parte, il governo cinese guarda anche alle proprie esigenze strategiche, sia nei confronti dell’India – che di Kabul è stretta alleata e tutrice, ma che Pechino non vuole abbia l’esclusiva delle iniziative economiche e dell’addestramento della polizia nel Paese confinante – sia degli Stati Uniti, che a loro volta mantengono forze militari nel Paese e un’influenza sull’apparato militare del Pakistan, che della Cina popolare è da sempre partner economico e strategico.
Per Pechino, come ha sottolineato di recente uno specialista di anti-terrorismo cinese, «difesa e sviluppo sono sempre stati la base per benefici reciproci. Questo perché se entrambe la parti si focalizzassero sulla cooperazione alla sicurezza, non potrebbero esserci rapporti duraturi». In questo senso, dopo avere investito in un triennio 70 milioni di dollari in armi per le truppe afghane, il governo cinese sta spingendo anzitutto per avere un accesso alle ingenti risorse minerarie del Paese confinante, dove sono oltre 1.400 i giacimenti finora individuati. Inoltre, l’Afghanistan rappresenta un punto focale per il progetto della «Nuova via della seta» sponsorizzato da Pechino ma che si trova davanti a ostacoli che sono frutto anzitutto situazioni di conflitto irrisolte, ma anche all’ostilità verso una presenza sempre più pressante e ingombrante in Paesi che – accettando cooperazione, investimenti e fondi – rischiano di trovarsi totalmente dipendenti dalle necessità cinesi.
Una scelta comunque storicamente rischiosa, la prima per quanto riguarda la Cina in Afghanistan, dato che nessuna ingerenza militare esterna ha avuto vita facile, non solo per la caparbietà degli afghani nel difendere il proprio territorio, ma anche per la molteplicità di etnie e interessi che sovente fanno della presenza straniera una pedina da accogliere o rigettare.
Foto: Flickr / Jonathan Kos-Read