Missione Bissau nel cuore della città

Nella parrocchia di Fatima, al centro di Bissau, tra bisogno di fede e bisogni quotidiani. La testimonianza di padre Giovanni Demaria

La Guinea Bissau è una cosa, Bissau è un’altra. Per i giovani guineani che vi arrivano dai villaggi dell’entroterra, la capitale guineana sembra una metropoli, anche se un europeo la definirebbe piuttosto un paesone. Con i suoi oltre 600 mila abitanti, stretti in 80 chilometri quadrati tra il mare e l’aeroporto, Bissau è il centro politico, amministrativo e commerciale di uno degli Stati più poveri del mondo. E ha dinamiche molto diverse dalle zone rurali nel resto del Paese.
A Bissau, le parrocchie cattoliche sono otto, due delle quali si trovano nel centro: quella della cattedrale e quella di Nostra Signora di Fatima, fondata e coordinata dal Pime. Qui, a coordinare le attività da quasi tre anni, c’è padre Giovanni Demaria, giovane missionario del Pime di origini milanesi. «Le aree principali di attività sono due – ci racconta durante le sue ferie in Italia -: quella della parrocchia e quella della scuola Solidariedade, che offre sia l’asilo che le elementari. È una delle scuole private della città, fondata da padre Dionisio Ferraro. In tutto, quest’anno abbiamo avuto quasi mille bambini iscritti».

La situazione del sistema educativo in gran parte della Guinea è disastrata. Dove le strutture sono presenti e agibili, spesso mancano gli insegnanti. «Le scuole statali costano pochissimo – spiega padre Giovanni -, ma non funzionano. Lo Stato non riesce a pagare gli insegnanti, che quindi scioperano; per almeno quattro mesi ogni anno scolastico si rifiutano di insegnare». Il risultato è che le famiglie preferiscono tenersi i soldi della retta per comprare altro e i bambini rimangono senza istruzione. Per fortuna ci sono le scuole private. «La retta annuale alla scuola Solidariedade è di 110 mila franchi, circa 150 euro. Per gli standard guineani è un costo ragionevole e molte famiglie riescono a permetterselo. Grazie alle rette possiamo pagare i professori, comprare il materiale didattico e offrire qualche opportunità in più: ad esempio, sono riuscito a inserire nel programma anche delle lezioni di musica. Insomma: funziona ed è una buona scuola. E quasi sempre i bambini proseguono gli studi sino all’università».

I problemi, tuttavia, non mancano. «In Guinea molti giovani hanno come unico grande desiderio quello di andarsene via. Farebbero qualsiasi cosa per vivere all’estero. Le università a Bissau ci sono e sono anche molto frequentate. Certo, la qualità dell’insegnamento non è altissima, anche perché sono istituzioni che esistono solo dal Duemila. Ma la realtà è che i giovani, non appena possono, cercano una borsa di studio all’estero: in Brasile, in Portogallo, in Cina, ovunque. Semplicemente perché il desiderio di lasciare il Paese è irrefrenabile. Qui a Bissau lo studio, come il lavoro, sono spesso un “riempitivo” in attesa di trovare il modo per partire».

Ma perché questi giovani cercano di andarsene a tutti i costi? «Innanzitutto fuggono dai villaggi perché si sentono oppressi dalle tradizioni e dalle regole – dice padre Giovanni per spiegare l’esodo dalle campagne alla città -. Molti di loro sarebbero costretti a sposarsi con qualcuno imposto dalla famiglia o gli verrebbe assegnato un campo da coltivare senza alcuno strumento. Perciò vengono in città per cercare una vita un po’ più agiata. Una volta arrivati a Bissau, nonostante i legami con la famiglia di origine restino solidi, i giovani iniziano a sentire il bisogno di appartenere a un gruppo, di rafforzare la propria identità. E qui entrano in gioco tutte le occasioni di aggregazione offerte dalla città».

In questo, anche la parrocchia Nostra Signora di Fatima cerca di fare la sua parte. Oltre millecinquecento persone si radunano ogni domenica per le due Messe del mattino e, a differenza di quanto accade nella cattedrale, frequentata da stranieri e classi sociali più alte, qui sono tutti guineani. Fondata da padre Dionisio Ferraro – e grazie al lavoro di padre Guerino Vitali – la parrocchia si è sempre più strutturata e organizzata. Oggi conta quindici gruppi di apostolato dedicati a famiglie, chierichetti, scout, e ogni settimana si tengono dalle quaranta alle quarantacinque classi di catechesi per tutte le età. E, cosa non trascurabile, tutto è autogestito e finanziato dai parrocchiani. Anche perché la filosofia di padre Giovanni è quella di non chiedere aiuti dall’estero. «Non appena metti in mezzo i soldi iniziano a distorcersi le relazioni umane – ci dice -. Per questo io non chiedo e, quasi mai, do denaro. Se mi arriva qualche donazione da amici o parenti la passo ai miei confratelli nel resto della Guinea, dove so che c’è più bisogno».

Tutto bene, quindi? Non esattamente. Perché, soprattutto nei giovani, resta sempre presente quel desiderio di andar via che genera una serie di distorsioni. «Spesso dietro la richiesta di diventare cristiani si nascondono altri bisogni, sociali, psicologici, che a volte non possiamo capire – spiega padre Giovanni -. Ad esempio, per molti ricevere il battesimo significa diventare “civilizzati”. Così all’estero ci si può dire cristiani invece che animisti. I sacramenti sono visti come dei “diplomi” da prendere: una volta ottenuti, non c’è bisogno d’altro, come se la vita di fede si limitasse a questo».

Ma la spina nel fianco di padre Giovanni è il troppo lavoro, che non gli lascia tempo per altro. «Qui siamo in pochi e non abbiamo le forze per sviluppare la missione. Ma Bissau è un campo aperto che aspetta solo di essere coltivato: ci si potrebbe dedicare alle periferie, agli ammalati, al dialogo con i musulmani… Poco lontano dalla mia parrocchia ci sono i più grandi licei della città: mi chiedo spesso cosa si potrebbe fare con tutti quei giovani». Per non parlare dei bisogni più urgenti di tante persone, legati al lavoro, alla povertà, alla salute. «I guineani vivono una fragilità culturale, sociale ed economica enorme: queste necessità prendono il sopravvento sulle domande di senso e sulla spiritualità. Tanti, una volta ricevuti i sacramenti, smettono di frequentare la Chiesa. Di fronte a queste difficoltà, penso che l’unica soluzione sia andare a incontrare le persone nei loro quartieri, sedersi a un tavolo e pensare a far nascere una buona idea per promuovere qualcosa di nuovo nel futuro».