Annalena, 15 anni dopo

Annalena, 15 anni dopo

Il 5 ottobre 2003, veniva uccisa a Borama, in Somaliland, Annalena Tonelli. Noi l’avevamo incontrata un anno prima. E “Mondo e Missione” le aveva dedicato alcuni articoli, vincendo il suo proverbiale riserbo. Un ricordo personale e quello della città di Forlì.

 A quindici anni di distanza dalla sua uccisione la prima cosa che viene in mente di Annalena Tonelli è il suo sguardo. Quegli occhi grandi, chiari, penetranti che ti inchiodavano a una specie di patto non scritto: giù le maschere, i filtri, le finzioni. L’unica possibilità di un incontro, di uno scambio, di un dialogo può essere fatto solo nell’autenticità.

Ti metteva a nudo quello sguardo. E, di primo acchito, non ti metteva del tutto a tuo agio. Per lo meno, l’ho vissuto così il mio primo incontro con Annalena Tonelli sulla porta del Tb Centre di Borama, un anno prima che venisse uccisa. Senza fronzoli, a dir poco.

Dopo un benvenuto come se ci si conoscesse da sempre, un’ingiunzione che non ammetteva repliche: «Niente foto, niente interviste». Per me che ero partita per andare a Mogadiscio e che mi ritrovavo mio malgrado a Borama – perché nella capitale somala erano ripresi i combattimenti – non era certo la migliore delle accoglienze.

E poi quello sguardo che non ti lasciava scampo. E un’altra domanda inaspettata: «Non hai una gonna? In Somalia le donne portano le gonne». Annalena ne recupera due delle sue e per una settimana mi permette di seguirla. Niente interviste formalmente. E niente foto, appunto. Ma Annalena non era certamente una persona che si sottraeva al dialogo. O che, appunto, si nascondeva. Lo faceva dai media, per ritrosia e per prudenza. Ma non nel rapporto personale. Con un’apertura e, appunto, un’autenticità che lasciavano davvero spiazzati. Ma che, una volta prese le misure, ti permettevano di avvicinare una donna sorprendente e assolutamente straordinaria. Nel suo caso, un aggettivo che non ha nulla di retorico.

A quindici anni di distanza un altro ricordo preciso che torna alla mente è la prima frase del grande capo tradizionale di Borama che accogliendomi mi dice: «Annalena sembra una persona normale, ma non lo è». Appunto, “stra-ordinaria”, fuori dall’ordinario, fuori dal comune, una donna difficilmente definibile, che si identificava completamente con il servizio reso agli altri in nome di Dio. Una mistica, ma capace di grande concretezza: intelligente, energica, indipendente, grandissima lavoratrice e organizzatrice, una dedizione straordinaria ai suoi ammalati e una profonda spiritualità. Una donna libera, perché non aveva paura. «Per quanto riguarda l’articolo/testimonianza su di me – mi scriveva pochi mesi prima di essere uccisa –  penso che sarà meglio rimandare a dopo la mia morte…se avrà ancora un senso… Forse presto. Potrei morire questo momento stesso». Sapeva con certezza che la morte poteva coglierla in qualsiasi momento. Lo sapeva, ma non ne aveva paura. Ne parlava spesso, con naturalezza. Come solo gli africani sanno fare. O come chi custodisce nell’animo una fede grande e si affida completamente a un Altro

Aveva vissuto le situazioni più difficili, drammatiche, disumane e disumanizzanti, trovando nell’amore per gli ultimi il senso di una vita degna di essere vissuta. Una vita di sacrificio ad occhi estranei, ma – come lei amava ripetere – «la migliore delle vite possibili».

Stando con lei nei giorni di Borama non si potevano avere dubbi. In quel contesto per molti versi ostile, Annalena aveva trovato il senso profondo della sua vocazione, nonché la possibilità di un dialogo e di un incontro, ma soprattutto di un servizio: una devozione speciale per i suoi malati e più in generale per i più poveri tra i poveri.

Ci scambiavano per madre e figlia, pur non assomigliandoci per niente (non solo fisicamente). E su questo abbiamo scherzato molto, perché Annalena, a modo suo, aveva anche senso dell’umorismo. Ma se è certo che, in nessun modo, potrei paragonarmi a lei, penso che anche persone “normali” come me e come molti altri possano trovare in questa donna così eccezionale, un esempio e un modello ancora oggi di grande ispirazione. Perché Annalena incarna un ideale molto umano – e anche molto femminile e materno («io sono madre autentica di tutti quelli che ho salvato», diceva) – verso cui tutti positivamente possiamo tendere.

Chi è Annalena Tonelli

Annalena Tonelli nasce a Forlì nel 1943. Ha lavorato in ambito sanitario per più di trent’anni, in particolare per la cura della tubercolosi, di cui è diventata uno dei massimi esperti a livello internazionale. È suo infatti il protocollo di cura adottato dall’Oms in molti Paesi del mondo. Ma Annalena non era medico. Laureata in legge in Italia, era abilitata all’insegnamento della lingua inglese nelle scuole superiori in Kenya. Aveva certificati e diplomi di controllo della tubercolosi in Kenya, di medicina tropica1e e comunitaria in Inghilterra, di Leprologia in Spagna.

Lascia l’Italia nel gennaio del 1969, dopo sei anni di servizio ai poveri di uno dei bassifondi di Forlì, ai bambini del locale orfanotrofio, alle bambine con handicap mentale e vittime di grossi traumi di una casa famiglia, ai poveri del terzo mondo grazie alle attività del Comitato per la lotta contro la fame nel mondo che aveva contribuito a fondare.

Annalena e la Somalia

Dopo 16 anni a Wajir, in Kenya, la storia personale di Annalena si lega strettamente a quella della Somalia, un Paese devastato dal conflitto civile, sprofondato dal 1991 in un caos istituzionale senza vie d’uscita, in mano a “signori della guerra” e jihadisti, che conoscono solo la legge della forza e delle armi.

Parlare di Annalena significa, dunque, evocare i fantasmi di un Paese che spesso tende a scivolare nell’oblio, con le sue tragiche vicende interne, ma anche con tutta una serie di “questioni” internazionali aperte e poco chiare: dal traffico di armi a quello dei rifiuti tossici, dal business della droga all’uso di uranio impoverito durante l’operazione Restore hope, dagli scandali dell’umanitario a quelli riguardanti politici di casa nostra. Per non parlare del caso – anch’esso irrisolto – di Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio nel 1994, insieme al cameraman Miran Hrovatin, mentre indagava sui tanti misteri della Somalia. Ma anche di suor Leonella Sgorbati, uccisa nel 2006 a Mogadisco e beatificata lo scorso maggio.

Annalena molte di queste storie le ha vissute sulla propria pelle, specialmente le vicende legate alla caduta di Siad Barre, nel gennaio ’91, e alla devastazione di Merca negli anni successivi, quando l’Onu prima e gli americani dopo (con i loro alleati anche italiani) avevano cercato di portare un po’ d’ordine nel caos somalo, imbarcandosi in una delle operazioni più fallimentari e ignominiose.

Anni orribili, mi raccontava: «Come nella Bibbia, era il tempo in cui il marito è contro la moglie, il fratello contro il fratello, il tempo in cui c’è così tanto odio che ci si rivolta gli uni contro gli altri… Così è stata la Somalia per alcuni anni».

A Merka resta dal ’92 al ’95. Qui tutti combattevano contro tutti, e una terribile carestia uccideva la gente come mosche. «Un’esperienza così traumatizzante da mettere in pericolo la fede. Per 13 mesi – diceva – ho dovuto assumere due persone solo per seppellire i morti. In poco più di due mesi oltre mille bambini sono morti di fame e di tubercolosi. In casa tenevo 600 piccoli tubercolotici per cercare di assisterli giorno e notte e ogni giorno sfamavo oltre tremila persone».

Dopo pressioni e ricatti, Annalena lascia la gestione del suo ospedale nella mani di Caritas italiana, che manda una dottoressa Graziella Fumagalli, un’altra grande figura di laica missionaria, donna coraggiosa e integerrima che verrà uccisa poco dopo.

Gli ultimi anni a Borama

Nel ’96 si trasferisce in Somaliland, dove crea il Tb Centre, un ospedale antitubercolare, che non ha eguali in tutta la Somalia, e dove promuove una serie di iniziative nel campo sanitario ed educativo.

Il Somaliland è uno staterello autoproclamatosi indipendente pochi mesi dopo la caduta di Siad Barre, e non è riconosciuto dalla comunità internazionale; due milioni di abitanti, sopravvive di una pace precaria e di un’economia raffazzonata, di un vago tentativo di democratizzazione e di un forte radicamento nelle strutture sociali tradizionali. Un equilibrio così fragile che si ha sempre l’impressione che debba rompersi da un momento all’altro. Eppure in qualche modo funziona. Al punto che Annalena ha deciso di trasferirsi qui per ricominciare ancora una volta la sua lotta per i somali e contro la tubercolosi. Sino al suo assassinio, la sera del 5 ottobre 2003, al termine del suo quotidiano giro degli ammalati, per mano di alcuni fondamentalisti islamici.

Oggi Annalena riposa a Wajir, nel deserto del Kenya, dove nel 1969, aveva iniziato a realizzare la sua aspirazione di «gridare il Vangelo con la vita», restando fedele ai due assoluti della sua esistenza: Dio e gli ultimi.

Qui è cominciata e si è conclusa la sua avventura umana in terra d’Africa, vicino a quell’eremo dove nel «silenzio ai piedi di Dio» ritrovava «la forza di combattere la battaglia di ogni giorno prima di tutto con «ciò che ci tiene schiavi dentro».

Un silenzio che parla. Quel silenzio continuerà a parlare a tutti coloro che hanno avuto il privilegio di incontrarla o che l’hanno conosciuta indirettamente dopo la sua morte, e che sapranno dare nuovo slancio alla sua «invincibile passione per il Vangelo e per l’uomo ferito».

 

IL LIBRO

Annalena Tonelli

Lettere dal Somaliland 1996-2003 

Con prefazione di don Angelo Casati

(Editrice Dehoniana, pp. 464, 20 euro)

Terzo di una serie che comprende le lettere dal Kenya e quelle dalla Somalia, questo volume raccoglie le lettere inviate da Annalena negli ultimi sette anni della sua vita, dal 1996 al 2003, da Borama in Somaliland. Un contesto fanatico e intollerante in cui la sua vocazione alla povertà si radicalizza in una chiamata alla «grazia a caro prezzo», in un’espressione della non violenza «mescolata nella melma, nella pasta di questo terribile mondo».

 

GLI EVENTI A FORLÌ

Un convegno, una marcia, un musical. Forlì si mobilita per Annalena Tonelli. Ci sono voluti 15 anni dall’uccisione della missionaria laica originaria di questa città perché si arrivasse a un momento non tanto commemorativo ma di memoria viva. Perché, pur nella discrezione sua e dei famigliari e amici più cari, Annalena è un a figura che ha molto da dire anche oggi.

L’intenso calendario di eventi è cominciato il 30 settembre, ma vedrà i suoi momenti forti in questo fine settimana. Dal 5 al 7 ottobre, infatti, il Comitato per la Lotta contro la fame nel mondo di Forlì – di cui Annalena fu una delle fondatrici -, in collaborazione con altri enti ed istituzioni locali, ha messo a punto molte iniziative.

Le prime, appunto, venerdì 5 ottobre, anniversario dell’uccisione di Annalena. Alle 20.30, in particolare, è prevista una marcia con partenza dai Musei san Domenico e arrivo in piazza Saffi: durante il cammino saranno toccati alcuni dei luoghi cari alla missionaria nei suoi anni d’impegno forlivese. Alle 21.15, in San Mercuriale, veglia di preghiera, presieduta da mons. Livio Corazza, vescovo di Forlì-Bertinoro.

Sabato 6 ottobre dalle 9.30 alle 18.30 e domenica 7 ottobre dalle 9.30 alle 11.30, al Campus universitario (Teaching Hub) con ingresso da viale Corridoni, 20, è in programma il convegno su “Annalena e l’amore che ha ispirato le sue azioni”. Saranno presenti divcerse persone che hanno conosciuto e hanno lavorato con lei in tempi e luoghi diversi, fra cui Roberto Gimelli, don Sergio Sala, Andrea Riccardi, padre Pietro Pagliarini, Annalena Benini, Silvio Tessari, Emanuele Capobianco e l’arcivescovo di Bologna mons. Matteo Zuppi. La tavola rotonda del 7 mattina è imperniata invece su “Annalena oggi”.

Sabato 6, alle 21, con replica domenica 7 alle 16.30, presso il Teatro “Diego Fabbri” in corso Diaz, andrà in scena lo spettacolo musicale “Il fiore del Deserto. Annalena, una via di speranza e amore”, scritto, diretto e interpretato dalla compagnia forlivese “Quelli della Via”.

Infine, domenica 7 ottobre, alle 11.45 in cattedrale, santa Messa in suffragio di Annalena presieduta da mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministrator apostolico di Mogadiscio.