La campagna «Colpire duro contro il terrorismo violento» prevede arresti arbitrari e campi di rieducazione per un milione di persone, soprattutto per uiguri e kazaki. La denuncia di Human Rights Watch
C’è un posto al mondo dove un uomo con la barba lunga può finire in galera, per ostentazione della fede. Un luogo dove parlare per strada la propria lingua con un compaesano è reato. E dove chi dà un’educazione religiosa al proprio figlio fra le mura di casa propria rischia l’arresto. È la Regione autonoma uigura dello Xinjiang, nella Cina nord occidentale, dove secondo un recente rapporto di Human Rights Watch è da tempo in atto una campagna di repressione contro la popolazione musulmana.
«Vogliono assimilarci forzatamente, costringerci a identificarci con il Paese, in modo che in futuro l’idea stessa di uiguro sia solo un nome privo di significato», racconta Tohti, uno dei 58 intervistati in questo documento. Tohti è riuscito a scappare nel 2017, e così tutti gli altri che Human Rights Watch ha sentito tra marzo e agosto 2018. Sono quasi tutti kazaki e uiguri, accomunati da radici turche e dalla fede musulmana. I nomi citati nel rapporto sono di fantasia, per proteggere i familiari degli intervistati ancora nello Xinjiang. Buona parte di loro ha provato il carcere, la detenzione arbitraria, i campi di rieducazione orchestrati da Pechino nell’ambito della campagna “Colpire duro contro il terrorismo violento”, lanciata nel 2014, che ha portato a triplicare gli arresti rispetto al quinquennio precedente. Non esistono cifre ufficiali, ma si parla di circa un milione di persone nei campi di rieducazione.
Dal 1949, quando è fallito l’ultimo tentativo uiguro di avere uno stato autonomo, i cinesi hanno sempre vissuto questa vasta regione come una spina nel fianco. I popoli che la abitano sono diversi per cultura, religione e lingua dalla maggioranza han. Da decenni si è cercato di favorire l’immigrazione cinese per alterare gli equilibri etnici. Con successo: gli uiguri, che erano 75 per cento della popolazione dello Xinjiang nel 1949, oggi sono il 48 per cento. Gli scontri etnici del 2009 e il clima internazionale contro il terrorismo islamico hanno spinto Pechino a un ulteriore giro di vite, rafforzato dall’arrivo nel 2016 di un uomo di ferro, Chen Quanguo, segretario del Partito Comunista, forte di una precedente esperienza in Tibet, come indica il rapporto. Oltre agli arresti, i musulmani nei centri di detenzione o nei campi di rieducazione politica sono soggetti a maltrattamenti e talvolta a torture.
«Un detenuto mi ha mostrato una ferita provocata dall’essere rimasto appeso al soffitto», ha raccontato Alim. «Mi ha detto che non possedeva materiale religioso, ma dopo essere stato appeso per una notte, avrebbe ammesso qualsiasi cosa». I centri sono a volte sovraffollati. «Ho dovuto condividere il letto con un altro, e in una stanza di 18 mq ci siamo ritrovati in 25 persone. Non c’erano abbastanza piatti e abbiamo dovuto lottare fra di noi per accaparrarceli», dice Nur.
Per finire dietro le sbarre, basta poco: un gesto legato alla religione rende subito sospetti. Racconta ancora Alim: «So di un tizio che è stato portato via per aver tenuto sul suo orologio l’ora di Urumqi (Pechino ha imposto la sua ora, che è due ore in avanti – ndr): gli hanno detto che era indiziato di terrorismo. E così tre gestori di ristoranti, considerati islamici, che non autorizzavano i clienti a fumare e bere alcolici al loro interno. Un uomo, invece, è stato condannato a otto di carcere perché hanno trovato degli ebook in uiguro sul suo computer, che sono stati giudicati di matrice religiosa: lo hanno accusato anche di averli usati per insegnare la religione ai suoi figli».
Oltre all’angoscia che attanaglia gli arrestati, che spesso non hanno idea né di cosa sono accusati, né di quando usciranno, i campi includono gli interventi rieducativi di sinizzazione. «Non potevano salutarci dicendo “assalam aleikum”, ma “ni hao ma?”, e dovevamo parlare in mandarino. Se usavo una parola della mia lingua, venivo punito», dice Erkin. Ogni uiguro deve anche saper scrivere almeno un migliaio di ideogrammi in cinese, il peggiore degli incubi – come ricorda un ex prigioniero – soprattutto per le persone anziane, che facevano fatica non solo a scrivere ma anche a vedere gli ideogrammi.
Secondo il rapporto di Human Rights Watch, l’indottrinamento prevede la partecipazione all’alzabandiera e il canto collettivo di canzoni di propaganda. Fra le regole da seguire, che Ehmet ha dovuto imparare, c’erano il divieto di parlare uiguro o kazako nei luoghi pubblici, il divieto di insegnarli a scuola e la proibizione di creare delle chat online fra minoranze. La volontà di assimilare i musulmani per cancellare la loro identità è provata anche dall’esistenza di una norma che prevede un premio per i matrimoni fra un uiguro o un kazako e un cinese han.
Anche chi non è in prigione, se è musulmano incontra serie limitazioni alla propria libertà di movimento. Chi studia all’estero o vi risiede per un periodo, al rientro rischia di vedere il proprio passaporto requisito. E chi ha contatti con uno dei 26 Paesi considerati a rischio (tutti islamici, dalla Turchia alla Malesia) perché ha un parente o un amico, rischia di essere fermato e arrestato. Quanto ai vari checkpoint istituiti presso le stazioni, all’ingresso di villaggi o nei mercati, esistono corsie preferenziali per i cinesi han, mentre in nome della sicurezza i musulmani sono costretti a fare la fila per subire i controlli.
Si può essere arrestati anche per i contenuti del proprio cellulare o per qualcosa che si ha in casa. Ainagul racconta: «Abbiamo sentito nel maggio 2017 che avevano iniziato a punire la gente per il possesso di oggetti religiosi. Avevamo dei libri, e li abbiamo bruciati. Non è permesso indossare nulla con simboli del Kazakhstan: mio figlio possedeva una maglietta e l’abbiamo bruciata».
È noto che ci sono stati casi di uiguri che negli ultimi anni sono diventati foreign fighter in Siria. Tuttavia, per tenere sotto controllo la popolazione musulmana dello Xinjiang, cercando di affievolirne il senso d’identità, Pechino sta usando ogni mezzo. Inclusa l’incredibile campagna “Diventare famiglia” che dal 2016 ha distaccato un milione di quadri cinesi nelle case dei contadini dello Xinjiang. Ogni due mesi, il funzionario trascorre almeno cinque giorni presso la famiglia cui è stato assegnato, avendo nodo di verificare da vicino la sua lealtà.
Foto: un anziano uiguro nello XinJiang (Flickr/Gusjer)