A lungo stretto collaboratore di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco, padre Federico Lombardi ripercorre i gesti e le parole sulla missione imparati viaggiando insieme a loro
Per tanti anni ha portato nelle case la voce di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco. Prima come direttore della Radio Vaticana, che dalle sue frequenze rilancia le notizie sul Papa e sulla Chiesa in tutto il mondo. Poi – dal 2006 al 2016 – anche nel ruolo delicatissimo di direttore della Sala stampa vaticana. Padre Federico Lom-bardi, gesuita, ha accompagnato Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio nei loro viaggi ai quattro angoli del mondo, ha vissuto dietro le quinte i momenti cruciali dei loro Pontificati, nel 2013 è toccato a lui anche spiegare la scelta del tutto inedita delle dimissioni di Benedetto XVI. Tutte esperienze vissute senza perdere lo sguardo limpido e la sua proverbiale autoironia. Ed è con questo atteggiamento che ripercorre anche con noi in questa intervista i venticinque anni vissuti in prima linea in Vaticano con uno sguardo di particolare attenzione al mondo. Lo incontriamo a Monza dove nel mese di settembre ha portato la sua testimonianza al convegno «Noi popolo di Dio. Laici per la missione» promosso dal Semi-nario teologico del Pime, quello dove studiano i nostri futuri missionari.
Padre Lombardi, che cosa ha imparato sulla missione nel suo servizio accanto a questi tre grandi Pontefici?
«Vivere quest’esperienza mi ha fatto capire che la Chiesa è fatta per il mondo intero. L’ho visto innanzi tutto nei viaggi di Giovanni Paolo II: la sua volontà di andare ovunque fosse possibile per incoraggiare e dare respiro. Ha visitato anche le comunità più piccole o marginali: ricordo nel 2002 il viaggio in Azerbaijan, dove i cattolici erano poche decine; nessun Paese del mondo doveva rimanere scoperto dalla sistematicità della sua presenza. Per me questa è stata una via molto importante per conoscere la Chiesa. E da parte nostra, al seguito del Papa come comunicatori, la sfida è stata quella di far respirare a tutta la Chiesa quanto lui ci portava a vedere e sentire. Era una circolazione di comunicazione che creava comunione. Giovanni Paolo II era un trascinatore, un apripista potentissimo: con la sua presenza portava ovunque il centro, il cuore della Chiesa, aiutando tutti a sentirsi vicini e solidali. Naturalmente c’erano anche posti dove non poteva andare; ma conoscevamo tutti il suo desiderio. Anche i suoi successori, poi, hanno dato ai viaggi questo significato, ma non con la sua potenza fisica insuperabile, soprattutto nei primi anni».
Che cosa ricorda in particolare di quei viaggi?
«Ai tempi in cui mons. Piero Marini era maestro delle celebrazioni pontificie, per esempio, ho vissuto con grande interesse i suoi tentativi di inculturazione della liturgia, sia nei viaggi sia a Roma durante i Sinodi continentali. Metteva un grande impegno nel cercare di cogliere elementi delle culture locali e integrarli. Credo sia stata un’esperienza importante, anche se poi è venuta un po’ meno. Certo l’inculturazione ha anche altri aspetti meno esteriori, ma il manifestarsi nella dimensione liturgica pubblica intorno al Papa dava visibilità a questo impegno. E nel lavoro alla radio e nel Centro televisivo vaticano ho cercato di valorizzarlo».
Lei è stato testimone diretto anche di tanti momenti storici per il dialogo interreligioso. Come lo ha visto cambiare?
«Ripeto spesso che Giovanni Paolo II è stato il primo a entrare in una sinagoga e il primo a entrare in una moschea. Poi però Papa Benedetto – quatto quatto – è andato in tre sinagoghe e tre moschee… Al punto che oggi la cosa non fa più nemmeno notizia: è diventata una dimensione immancabile in un viaggio. Il dialogo interreligioso poi l’abbiamo vissuto anche in Oriente e in Africa, a volte pure con gesti che spiazzavano un po’. Ricordo per esempio in Benin l’incontro di Giovanni Paolo II con i rappresentanti delle religioni tradizionali africane e gli sguardi un po’ perplessi di qualche missionario che probabilmente aveva fatto tanta fatica a portare i propri fedeli a prendere le distanze da certi gesti e certi riti…».
Parallelo è stato anche il cammino ecumenico.
«A Costantinopoli ormai si è di casa e anche con gli anglicani, i luterani, il Consiglio ecumenico delle Chiese ci sono stati tanti passi insieme. Francesco è arrivato a incontrare anche il patriarca di Mosca, ma una novità del suo Pontificato che mi ha molto colpito è la sua familiarità con il mondo evangelico-pentecostale. Non è stato notato molto, ma è un versante importantissimo con cui di solito siamo meno coraggiosi nel prendere contatto. Su questo Francesco ha dato un contributo inedito».
Un’altra caratteristica di Francesco è non avere bisogno di intermediazioni: il suo messaggio arriva diretto a chi ascolta. Bel vantaggio per un portavoce…
«È vero, è una caratteristica tutta sua. Parla spesso della cultura dell’incontro e nei primi tempi del Pontificato mi chiedevo che cosa volesse dire. Perché sì, va bene, ci si incontra, si dialoga, ma questo lo sapevamo già… Poi ho capito che parlava di un aspetto del suo modo di vivere questi momenti: andare incontro all’altro per cercare un incontro anche umano molto diretto, esponendosi, manifestando il desiderio di un contatto tra persone, non solo tra idee astratte da mettere sul tavolo. L’ho trovato un carisma particolare. Confida nel fatto che questo rapportarsi senza maschere possa aprire nuove strade e possibilità. E questo vale per l’incontro con la persona semplice come per le udienze ai capi di Stato. Al termine di questi incontri era sempre abitudine che vedessi il Papa per avere da lui qualche indicazione che serviva per stendere un comunicato. Benedetto era insuperabile nel fare una sintesi chiara e concisa dei contenuti: in tre minuti me ne andavo con i miei appunti. Francesco invece ti dice: “È un uomo saggio…”. Oppure: “Abbiamo parlato della sua famiglia…”. Ha un approccio alla persona, al suo carattere, alla possibilità di stabilire un dialogo sincero. Sono due sguardi complementari: la lucidità contenutistico-concettuale e il carisma dell’incontro con la persona. Onestamente credo che alcuni risultati ottenuti da Francesco nascano da qui. Ad esempio il riconoscimento di Raul Castro e Obama sull’aiuto della Santa Sede nel riavvicinamento tra gli Stati Uniti e Cuba: il Papa non ha certo risolto i loro problemi politici. Però ha pesato il modo in cui si è proposto. E così anche per la Cina, il suo ripetere l’ammirazione per il popolo cinese, i messaggi inviati dall’aereo a Xi Jinping…».
E adesso è arrivato l’accordo con la Repubblica Popolare Cinese. Come leggerlo?
«Rende possibile la nomina dei vescovi in comunione con Roma, il che è un aspetto che nella vita della Chiesa conta. Non è tutto, ma soprattutto là dove ci sono tante diocesi vacanti o rette da persone molto anziane è un passo significativo. Inoltre è una premessa necessaria per la riconciliazione nella Chiesa in Cina. Non è la formalizzazione delle relazioni diplomatiche, non è l’ipotesi di un viaggio a Pechino dopodomani. Ma è un fatto. E va ricordato che più di una volta questo negoziato era stato interrotto nonostante si fosse arrivati molto vicini alla conclusione».
Quando vengono a Roma per incontrare il Papa che cosa portano le Chiese di tutto il mondo?
«Una straordinaria varietà: la situazione della Chiesa non è per nulla omogenea. Ci sono regioni in cui il problema di fondo – per dirla con Benedetto – è lo scomparire di Dio dall’orizzonte dell’umanità. Ma ci sono anche altri Paesi in cui la Chiesa oggi vive un grande dinamismo. Penso per esempio al Vietnam: nella Compagnia di Gesù abbiamo talmente tanti aspiranti novizi là che non possiamo ammetterli tutti. Nella Chiesa ci sono uno scambio di doni e allo stesso tempo anche una condivisione delle difficoltà. Mi ha colpito che Francesco abbia scritto ben due Lettere al popolo di Dio sul tema degli abusi sessuali, spiegando che se un membro soffre nella Chiesa soffriamo tutti. Penso anche alle sofferenze e alle difficoltà del Medio Oriente. Ma l’invito alla comunione vale anche per la vitalità della Chiesa: mi ha sempre colpito sentire Benedetto parlare con gioia delle Gmg; quando fu eletto qualcuno pensava che non le avrebbe più convocate e invece nei suoi bilanci dell’anno le metteva sempre al primo posto. Penso anche a tutti i volti belli dell’accoglienza, della solidarietà nel campo dell’emarginazione oppure alle storie dei testimoni della fede nel nostro tempo. Quando cominci a raccontarle ne trovi subito altre dieci: è una ricchezza che non finisce mai e bisogna saper ascoltare e valorizzare».
Come vede oggi il mondo dei media?
«Io sono un pessimista e anche per questo mi ha sempre toccato l’impostazione dell’insegnamento della Chiesa su questi temi che – al contrario – è tendenzialmente positiva: mette in luce le potenzialità per l’annuncio della fede. Mi è rimasto impresso un episodio con Giovanni Paolo II: una quindicina di anni fa per un evento avevamo organizzato nell’Aula Paolo VI in Vaticano alcuni collegamenti televisivi bidirezionali – allora complicatissimi – con giovani riuniti in tante città. Il Papa vedeva i giovani di Cracovia e parlava con loro, poi quelli di Mosca, poi quelli di Santiago de Compostela e così via. A un certo punto, spontaneamente, ebbe un’espressione del tipo: “Ma che cosa meravigliosa questa televisione che ci permette di essere in comunione”. Io ero lì che sudavo sperando che non cascassero questi collegamenti … E lui invece ha detto questa cosa con tanto entusiasmo. Mi sono detto: “Vede il possibile bene e mi indica con quale atteggiamento devo vivere questo mio servizio”. L’ho detto spesso anche ai giornalisti: ci ha aiutato ad avere una visione profetica del nostro servizio. Possiamo fare, possiamo essere dei collaboratori della pace nel mondo, dei messaggeri di giustizia, dei lottatori contro la fame con gli strumenti che abbiamo. Anche se questo sguardo di fede molte volte ci chiede di andare controcorrente».
Si parla tanto di scandali e divisioni nella Chiesa. Lei che cosa direbbe a chi è disorientato?
«Risponderei che Gesù Cristo è morto e risorto, che il Vangelo c’è ancora, i sette sacramenti pure… A me pare questo ciò che conta davvero: la Chiesa resta la via di incontro con il Signore e con la sua Parola. Anche riguardo all’insegnamento di Papa Francesco: si può discutere finché si vuole, ma non è che ci stia dicendo nulla di sconvolgente dal punto di vista della dottrina. Anzi: ci sta ricordando cose molto belle sulla missionarietà, sul tema del battesimo e il nostro essere popolo di Dio, sulla santità a cui tutti siamo chiamati, sulla responsabilità per la casa comune. Poi, che esistano tensioni nella vita di una comunità non mi pare una grossa novità. Le stesse riforme della Curia: sono strumenti, si possono discutere, in qualche caso saranno anche andate male. E allora? Non sono la fede. Diverso, invece, è il discorso sugli abusi sessuali commessi da sacerdoti. Sono un crimine gravissimo. C’è anche un rischio di strumentalizzazione esterna di questo fenomeno, al di là di quanto i dati stessi dicono. Però – come Papa Benedetto e Francesco ci hanno detto – questa è una sfida di purificazione grande. Forse in passato nella Chiesa eravamo ossessionati dalla sessualità; poi però siamo passati all’estremo opposto: non se n’è più parlato. Invece questo fenomeno particolarmente grave che è la pedofilia ci deve portare a pregare e a riflettere per ritrovare su questa dimensione delle linee di comportamento sane, dignitose, belle. E per tornare a viverle».
Chi è
Padre Federico Lombardi è nato a Saluzzo (Cn) nel 1942. Ordinato sacerdote nel 1972, ha collaborato alla rivista La Civiltà Cattolica. È stato superiore provinciale per l’Italia dei gesuiti dal 1984 al 1990, anno in cui è stato chiamato a dirigere i Programmi della Radio Vaticana e dal 2001 anche il Centro televisivo vaticano. Accanto a queste responsabilità, dal 2006 Benedetto XVI l’ha chiamato ad assumere anche il ruolo di suo portavoce come direttore della Sala stampa vaticana, incarico che ha mantenuto anche nei primi anni del Pontificato di Francesco. Dal 2016 è presidente della Fondazione Ratzinger, nata per approfondire il pensiero di Joseph Ratzinger e promuovere gli studi teologici.