Nel cuore commerciale e finanziario della capitale thailandese resiste l’antica presenza delle monache carmelitane, la cui cappella è frequentata tutte le domeniche da persone di ogni provenienza
Difficile pensare che il cuore di Bangkok, megalopoli indaffarata e contraddittoria, possa ospitare un recesso di solo silenzio e preghiera. Ancor più di ispirazione cristiana, dati la stragrande maggioranza buddhista della popolazione e il ruolo essenziale che il buddhismo ha nella storia e nella società thailandesi. Eppure, come tempo e esperienze hanno insegnato, proprio nel silenzio e nella contemplazione anche in Thailandia si sono concretizzate iniziative di incontro e dialogo.
Non a caso, la presenza delle carmelitane nella capitale thailandese, un tempo dell’antico Siam, è tra le più antiche tra quelle ancora attive nel Paese, dato che risale al 1925. Tra le più apprezzate della ridotta presenza cattolica, anche. Sono 300 mila i battezzati nelle undici diocesi in cui è organizzata la Chiesa locale. Fedeli in maggioranza di origine cinese e vietnamita, con una consistente presenza anche tra le minoranze etniche, solo in parte assimilate nella società thailandese. Se la società locale nel suo complesso resta impermeabile al messaggio cristiano, tuttavia non esprime con aggressività la propria distanza, concedendo presenze diverse che non sente come una minaccia all’identità siamese.
Il rischio maggiore per le claustrali del numero civico 14 di Convent Road è il valore del terreno su cui sorge il convento con la sua cappella frequentata la domenica da stranieri di ogni provenienza. L’area di Satorn, dove si trova la City thailandese, il suo cuore commerciale e finanziario, è tra quelle con il maggior valore immobiliare della Thailandia. La pressione della speculazione rischia di diventare insostenibile anche per la piccola enclave spirituale – che dipende dall’arcidiocesi di Bangkok guidata dal cardinale arcivescovo Kriengsak Kovitvanij – assediata da grattacieli e luoghi di uno svago sovente equivoco alternati a centri benessere e ristoranti di lusso.
La realtà oggi claustrofobica di Convent Road è stata però anche al centro di una diaspora che ha propiziato la diffusione nel Paese di diverse esperienze simili che oggi coinvolgono una sessantina di suore e di novizie, non solo thailandesi. In questo seguono l’esempio della fondatrice delle carmelitane nel Sud-est asiatico, una suora inglese entrata in convento in Francia che 93 anni fa arrivò in Thailandia dopo una peregrinazione in Vietnam e Cambogia.
L’attività quotidiana delle monache, come sottolinea suor Angela, combina la preparazione del cibo, la cura delle anziane e la fabbricazione di ostie, paramenti e immagini sacre per la devozione. Tuttavia, l’impegno principale è la preghiera, con sette momenti quotidiani di raccoglimento. I cattolici della capitale, sull’esempio di una società che apprezza una vita religiosa di contemplazione e di distacco dal mondo, vanno a portare cibo e offerte affinché le suore non debbano preoccuparsi del necessario per vivere. Poi ci sono molti che, soprattutto alla domenica, vanno al convento per chiedere preghiere e benedizioni nei momenti di difficoltà.
Oggi i monasteri delle carmelitane scalze in Thailandia sono quattro: quello di Bangkok, con 13 suore e una novizia vietnamita; quello di Chantaburi, con 17 suore; quello di Nakhon Sawan, con 13 suore e una novizia thai; quello di Sampran, con nove suore. Della realtà di Bangkok, e in particolare del suo convento, è stata parte fino a pochi anni fa suor Angela, al mondo Lucia Mui Hua See Heen, che testimonia l’origine cinese della famiglia, o con l’impronunciabile appellativo thai Cit Voraciootnonbandan. Con i suoi 68 anni, suor Angela è lucida testimone della presenza carmelitana nel Paese del Sorriso. Nonostante da tempo le sia stata affidata la responsabilità del Carmelo di Nakhon Sawan, a circa 250 chilometri a nord di Bangkok, il rapporto della religiosa con Convent Road è stretto e personale. Lucia/Cit è infatti nata e cresciuta in una casa presso il convento, nel vicolo dove ora c’è un ristorante di grido gestito da un canadese. Il papà era originario della Cina e per garantire ai 12 figli la possibilità di una vita dignitosa lavorava come inserviente all’ospedale San Luigi ma curava anche il giardino delle suore di clausura. Un giardino e una casa che ben presto anche la futura religiosa iniziò a frequentare, imparando così a conoscere le suore e le loro attività. Fino a quando all’età di 16 anni iniziò a percepire la sua vocazione. Una vocazione – prima dell’accoglienza come novizia a 20 anni – contrastata proprio dalla famiglia, che benché cattolica manteneva le tradizioni originarie di impronta confuciana. Al punto che un giorno il fratello maggiore, tornato a casa, non trovandola e vedendo i genitori tristi per la sua assenza, si recò al convento armato di pistola per convincerla a rientrare e ad abbandonare il suo interesse per la vita di clausura in quanto non aveva ancora vissuto “da donna”.
Viene spontaneo chiedersi quali siano il senso e il ruolo di una presenza claustrale in una società come quella thailandese… «Anzitutto – segnala suor Angela – non dobbiamo dimenticare che anche nel buddhismo ci sono religiose “contemplative”, monache che si dedicano alla meditazione e alla preghiera. Forse loro sono più distaccate dal mondo e non fanno vita comunitaria come noi. D’altra parte, noi non viviamo del tutto isolate e poi ci diamo da fare per mantenerci!».
Ci sono difficoltà nella scelta di clausura o, ad esempio, nell’accesso di nuove vocazioni? «Le difficoltà sono in noi stesse – dice suor Angela -, che ogni giorno cerchiamo di conformarci alla volontà di Dio, cercando ciò che è il meglio secondo la nostra vocazione, lasciando desideri, egoismi e piaceri. Le vocazioni diminuiscono perché ci sono i media e lo sviluppo che impediscono la ricerca della vita interiore, spirituale. Una “minaccia” alle vocazioni è il numero decrescente dei figli in questo Paese, che rende la prole ancora più preziosa per le famiglie tradizionali. Attualmente abbiamo due donne sui trent’anni che vorrebbero entrare in convento, ma non hanno il permesso della madre e quindi stanno aspettando il momento opportuno. D’altra parte, per la prima volta abbiamo la richiesta di una vocazione adulta, una signora sui 50 anni. Stiamo valutando il caso per accertare che la sua sia una scelta davvero ponderata».