Alla lista dei film stranieri candidati all’Oscar, si è aggiunto da poco “Wiñaypacha”, prima pellicola interamente girata in Aymara, una lingua usata da appena 2 milioni di persone. Il regista è Oscar Catacora, un trentenne peruviano al suo primo lungometraggio: non ha voluto attori e ha usato il nonno come protagonista per raccontare tradizioni e modi di vita di una popolazione delle Ande in via di estinzione
È arrivato in coda, quando le candidature per gli Oscar che si assegnano ogni anno a febbraio, stavano ormai per chiudere. Ma alla fine il Perù ha sciolto la riserva presentando per la categoria riservata ai film stranieri “Wiñaypacha”, una pellicola per nulla convenzionale.
Il film, infatti – girato dal regista trentunenne Oscar Catacora, al suo primo lungometraggio – è anche l’unico mai realizzato interamente in aymara, lingua parlata da appena 2 milioni di persone. Nel film, poi, non ci sono effetti speciali: la telecamera è fissa davanti ai protagonisti e la colonna sonora inesistente. Non ce n’è bisogno d’altronde: la storia infatti è quella di Willka e Phaxsi, due ottantenni che abitano sul massiccio dell’Allincapac a oltre cinquemila metri di altezza. I due vivono a stretto contatto della natura, subiscono sole, vento e freddo come ha sempre fatto ogni abitante dell’altopiano delle Ande; ma sono molto soli, tanto che la coppia vive aspettando la visita del figlio emigrato in città.
La coppia appartiene a una cultura tradizionale che sta scomparendo insieme alla sua lingua e alla quale il regista vuole rendere omaggio. Per farlo Catacora non ha voluto attori ma è salito lui stesso sull’altopiano e – come fanno i nipoti più curiosi – ha chiesto a suo nonno materno Vicente di raccontare la propria storia. Ha trovato una signora, Rosa Nina, disposta ad affiancarlo e poi ha acceso la telecamera. Nessuno dei due protagonisti aveva mai recitato e Rosa non aveva nemmeno mai visto un film. Eppure, dopo qualche mese di allenamento, la pellicola è riuscita così bene che Wiñaypacha ha avuto enorme successo. Da aprile ad oggi, il film ha ottenuto il primo posto al Festival del Cinema di Guadalajara in Messico oltre alla prestigiosa candidatura come miglior film latinoamericano al Premio Goya.
«Mentre mi stavo laureando – ha detto Catacora spiegando il suo lavoro – ho visitato diverse città andine dove ho visto da vicino l’abbandono degli anziani. I loro figli erano emigrati in città e molto raramente tornavano a trovarli. Loro soffrivano…». Ma il film si nutre anche del passato personale del regista, anch’egli di cultura aymara: «Quando da piccolo vivevo con i miei nonni paterni nelle zone alte della regione di Puno, a circa 4500 metri di altezza, ricordo la nostalgia che provavano per l’assenza di mio padre e degli altri suoi figli. Così, per la produzione del film, cercavo un attore che potesse impersonare proprio i miei nonni paterni, morti diversi anni fa, e alla fine ho deciso di chiedere al papà di mia mamma che è sempre un Aymara».
Il film non parla però solo di vecchiaia e abbandono, ma anche della perdita dell’identità dei popoli andini, la cui lingua e cultura è stata definita non a caso «vulnerabile» dall’Unesco. «Sì – ammette Catacora – il mio lavoro è anche una critica allo Stato peruviano che abbandona i popoli indigeni. Il nostro è un paese multiculturale, dove si parlano 49 lingue native: alcune stanno scomparendo e solo recentemente lo Stato ne ha promosso il recupero e la conservazione. Non basta però aiutare genericamente questi popoli, bisogna supportarli con delicatezza, rispettando quello che sono».