Tra gli ultimi nonostante i mitra

Tra gli ultimi nonostante i mitra

Francesca Bellotta, volontaria dell’Associazione Laici Pime, racconta il percorso che l’ha portata in Africa. E il suo impegno quotidiano per i più svantaggiati nella regione minacciata da Boko Haram

 

La grande moschea di Yagoua, con la sua cupola verde che spicca a distanza, non sorge lontano dalla chiesa cattolica di Saint Paul, nota per la sua esuberante corale. Ma in città, oltre alla cattedrale di Sant’Anna, si contano anche numerose chiese di varie denominazioni cristiane – avventista, luterana, presbiteriana… -, mentre il riferimento alle religioni tradizionali resta notevole e assolutamente naturale. La convivenza tra fedi diverse, d’altra parte, è una consuetudine in questa città dell’Estremo Nord del Camerun, incuneata nel triangolo di terra noto come “il becco dell’anatra”, che si insinua nel territorio del confinante Ciad: la città ciadiana di Bongor dista appena dieci chilometri in linea d’aria da Yagoua, oltre il fiume Logone.

Ma c’è un altro confine, particolarmente caldo, che negli ultimi anni ha condizionato pesantemente la quotidianità di questo vivace centro fatto di strade coperte di sabbia, su cui sfrecciano i motorini e passeggiano le capre, e dove si mischiano abitanti appartenenti a svariati gruppi etnici: la maggioranza massa ma anche i toupouri, i mousgoum, i moussey, e poi guiziga, moundang, peul… A ovest, a qualche ora d’auto, corre infatti la frontiera con la Nigeria, oltre la quale si estende il territorio dove dal 2014 spadroneggiano i sanguinari militanti di Boko Haram, gruppo fondamentalista che vagheggia l’istituzione di un califfato islamico e persegue il suo obiettivo attraverso la violenza e il terrore.

«La minaccia degli estremisti è arrivata fino a qui, con attentati e rapimenti, e ha portato con sé, sebbene ultimamente la situazione si sia stabilizzata, una militarizzazione della nostra vita quotidiana e, giocoforza, della nostra missione»: non nasconde il rammarico Francesca Bellotta, arrivata in questa terra due anni fa come volontaria dell’Associazione Laici Pime (Alp). Originaria del Milanese, 45 anni, Francesca lavora per la diocesi – «in un territorio che si estende su oltre 22 mila km quadrati!», precisa -, gestendo il sostegno a distanza di più di 1.200 studenti delle scuole cattoliche e rendicontando i progetti promossi dalla Caritas nel settore dello sviluppo socioeconomico, dalla perforazione dei pozzi alle attività generatrici di reddito. Sempre per la Caritas, gestisce l’ufficio di assistenza sociale.

«Recentemente abbiamo avviato anche un’iniziativa di sostegno a distanza per persone disabili, di tutte le età, perché è un bisogno davvero diffuso per il quale localmente manca una risposta adeguata. E poi ci occupiamo delle ragazze madri, delle vedove e degli orfani», aggiunge la volontaria, che presidia la missione Pime di Yagoua insieme a fratel Fabio Mussi, fratel Ottorino Zanatta e Dario Leoni, anche lui dell’Alp. Nella loro casa, tuttavia, vivono da anni anche alcuni “ospiti” ingombranti: «Abbiamo una scorta fissa di militari che stanno qui e ci accompagnano in qualunque uscita, anche minima, come andare a comprare una ricarica del telefono o fare la spesa al mercato».

Una situazione diversa da quella che Francesca aveva immaginato quando, anni fa, per la prima volta aveva contemplato l’idea di andare in missione in Africa. «Ormai è passato un decennio. Vivevo a Rogoredo, lavoravo da tempo per uno studio legale ed ero reduce da una situazione personale molto pesante. Per fortuna la comunità della mia parrocchia mi era stata molto vicina in quel periodo, e fu proprio durante un incontro del Consiglio dell’oratorio che venni a conoscenza dell’opportunità di fare un’esperienza in missione attraverso le suore di carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Colsi l’occasione al volo e mi trovai a trascorrere un’estate davvero intensa in Tanzania, tre settimane di servizio – si imbiancava, si dava una mano per la scuola materna o il dispensario, si frequentava il laboratorio con le donne masai o la scuola di formazione – e di relazioni umane». Fu amore a prima vista.

Da allora, ogni estate Francesca tornava in Africa: la meta successiva fu il Kenya, dove le stesse suore gestiscono una Baby home per bimbi orfani. «Dopo alcuni anni di esperienze stupende e profonde, nacque in me il desiderio di una presenza più stabile e qualificata, di maggiore spessore. Ne parlai con il mio parroco, che mi indirizzò al Pime», racconta ancora la volontaria.  Fu allora – era il 2012 – che Francesca incontrò per la prima volta l’Associazione Laici Pime, con cui cominciò il cammino di formazione e discernimento. «Ogni mese, gli incontri mi rigeneravano e mi offrivano nuova carica. Nacquero anche tante amicizie solide». L’estate successiva arrivò la proposta di una visita di conoscenza: non di nuovo in Kenya, come Francesca aveva immaginato, ma in Camerun, a Yagoua. La meta della sua missione si avvicinava. Dovette aspettare ancora tre anni – «volevo finire di pagare il mutuo, sistemare alcuni dettagli concreti per partire serena e indipendente» – e poi il grande progetto poté finalmente concretizzarsi.

«A fine agosto del 2016 lasciai il lavoro. Seguirono cinque settimane di corso di formazione al centro Cum a Verona – una delle esperienze più belle della mia vita, condivisa con una quarantina di persone in partenza per la missione con alcune delle quali continuo a coltivare una vera amicizia a distanza -, poi due mesi in Francia per perfezionare la lingua, e, infine, l’Africa».

Quando Francesca mise piede per la seconda volta sul suolo di Yagoua, l’11 gennaio del 2017, però, il terrore di Boko Haram aveva ormai varcato la frontiera con la Nigeria, sconvolgendo la vita quotidiana dell’Estremo Nord del Camerun. Attentati, rapimenti, un’instabilità politica che ha avuto ripercussioni pesanti sull’economia. Gli scambi con il gigante nigeriano, importatore di  derrate alimentari dal Camerun, sono notevolmente rallentati, mentre nella zona di Kousseri, che si avvantaggiava dall’essere una regione di confine molto commerciale, le famiglie che prima riuscivano sempre a pagare le rette delle scuole della diocesi oggi hanno forti difficoltà. Da queste parti si avventura, sempre massicciamente scortato, solo fratel Fabio Mussi, mentre la vita quotidiana di Francesca scorre generalmente in città, nell’ufficio della Caritas. Anche per arrivare lì – cinque minuti di auto – è tuttavia sempre accompagnata dai militari, che d’altra parte non la “mollano” nemmeno in chiesa. Non parliamo di quando deve spostarsi nelle scuole della diocesi per incontrare i bimbi sostenuti a distanza dagli adottanti del Pime: «Sull’auto, insieme all’autista, salgono due militari anti-terrorismo, in sostanza le locali teste di cuoio. È difficile, sempre con i mitra alle calcagna, creare e mantenere relazioni normali!», si sfoga la missionaria dell’Alp. Che – confessa – si era immaginata una classica missione fatta di vita comunitaria e incontri quotidiani con la gente, in parrocchia o al mercato.

Eppure, Francesca condivide la vita del popolo più di quanto forse lei stessa percepisca. La militarizzazione è conseguenza della furia fondamentalista che ha contagiato questo lembo di terra, dove «è la gente locale a subire gli attacchi di Boko Haram, in un contesto abituato alla convivenza, dove nelle scuole cattoliche gli studenti sono per il 30% musulmani. Anche se, è vero, gli estremisti cercano di reclutare ragazzini tra le loro file, con la promessa di denaro». Le relazioni quotidiane con i colleghi di lavoro, poi, permettono di partecipare del clima che si respira nel Paese in un momento particolarmente critico: le tensioni nella regione occidentale anglofona, che denuncia decennali discriminazioni, sono alle stelle, mentre le recenti elezioni hanno riconfermato al potere il presidente Paul Biya, in sella dal lontano 1982.

«Nelle mie conversazioni registro un profondo malessere, sia per la mancanza di fiducia in un possibile cambiamento politico, sia per la pervasività della corruzione», testimonia la volontaria, il cui mandato a Yagoua durerà fino al gennaio 2020. I brogli documentati, alle ultime elezioni, sono stati numerosi.

«Il Codasc, Comitato diocesano delle attività sociali della Caritas, ai seggi aveva degli osservatori, che hanno registrato molte irregolarità. Eppure, quando qualche collega mi ha confidato di non essere andato alle urne per lo scoraggiamento, ho espresso il mio disappunto: “Ma come?! – ho detto. – Se anche voi giovani, che vorreste migliorare il sistema attuale, siete rassegnati, come potranno mai cambiare le cose?”».

È poi nella preghiera serale, da sola, nella sua camera, che Francesca cerca di rielaborare pensieri e contraddizioni, consegnando anche il proprio disorientamento a Dio. Insieme alle tante vite che ogni giorno bussano alla porta del suo ufficio, in cerca di un sostegno. «Ieri si è presentato da noi un uomo, musulmano, che ha 21 figli da due mogli, e a cui sono appena nati tre gemellini. Siamo andati a casa sua, per vedere i piccolini e valutare un possibile aiuto». Ogni incontro lascia un’impronta. E la missione si fa strada, nonostante i mitra.