Fratello Oceano

Fratello Oceano

Mentre l’Onu, in Polonia, torna a discutere di clima, un rapporto delle Caritas del Pacifico afferma: la questione ecologica coincide con il riconoscimento del legame dei popoli indigeni con terra e acqua

 

Il fiume Whanganui, nella parte settentrionale della Nuova Zelanda, è ora riconosciuto come persona giuridica nell’ordinamento legale del Paese. Il significato pratico di un tale sviluppo rimane in larga parte da determinare, ma il segnale è chiaro: la natura ha diritto allo stesso rispetto che gli umani avocano a sé; cosa che peraltro torna a loro stesso vantaggio. Il fiume in questione infatti, come tanti altri sul pianeta, era morto a causa dei veleni immessi dalle attività agricole (pesticidi), minerarie e industriali nella zona. I nativi maori, così come le componenti animali e vegetali dell’ecosistema, avevano perso un’importante fonte di sostentamento e di equilibrio. Un accordo di collaborazione tra il governo e le tribù locali ora cerca di riportare in vita il fiume.

La questione ecologica nel Pacifico infatti è essenzialmente «riconoscimento dell’antico e profondo legame delle popolazioni indigene con la terra, le vie d’acqua e l’oceano che le sostiene». Lo dice il quinto rapporto sulla situazione dell’ambiente in Oceania, Waters of life, oceans of mercy (Acque di vita, oceani di misericordia), presentato alla stampa da Caritas Nuova Zelanda il 4 ottobre scorso, festa di san Francesco d’Assisi. Con la collaborazione dei colleghi di Tonga, Samoa, Papua Nuova Guinea ed Australia i ricercatori neozelandesi non si sono limitati ad analizzare gli studi eventualmente realizzati in materia, non sempre distanti dagli interessi di multinazionali e governi interessati al solo sfruttamento delle risorse, ma hanno raccolto le esperienze e le voci della gente delle coste e dei villaggi più remoti, dei contadini e dei pescatori, dei gruppi culturali tradizionali, delle vittime dei cicloni e del gelo imprevisto, degli operatori sociali e pastorali e delle organizzazioni non governative attive nelle comunità.

Il Rapporto 2018 raccoglie le preoccupazioni e gli elementi di crisi attorno a cinque nodi principali: innalzamento del livello dell’oceano ed erosione costiera; impatto ambientale sulle fonti di approvvigionamento di acqua e di cibo; catastrofi meteorologiche; estrazioni minerarie al largo delle coste; necessità di finanziamento alle attività di controllo, riduzione e adattamento al cambiamento climatico. Il contributo scientifico deve essere arricchito dall’esperienza e dall’ascolto della voce e dello stato d’animo delle popolazioni locali, più direttamente colpite dai fenomeni.

La condizione e il futuro dei soggetti più deboli, i disabili, le donne e i giovani, sono la prima preoccupazione degli interventi e delle campagne di opinione. Lo strumento di interpretazione e di decisione riguardo alla realtà è il dialogo, talanoa, un termine diffuso nel Pacifico, che significa discussione e discernimento comunitario, confronto onesto al fine di costruire migliori relazioni e comprensione reciproca. Il futuro dell’ambiente nel Pacifico dipende anche dai comportamenti delle comunità che lo abitano e dai leader politici, non solo dall’azione di organismi e compagnie internazionali.

Caritas Nuova Zelanda lavora da tempo con le comunità delle isole Carteret, al largo della Regione Autonoma di Bougainville, il cui processo di indipendenza dalla Papua Nuova Guinea sarà quasi certamente sancito dal referendum del giugno 2019. Le Carteret sono uno dei segni più evidenti dell’innalzamento delle acque nel Pacifico (20 cm dal 1900 e altri 30 probabilmente entro il 2050) e della necessità per la gente del posto di trasferirsi più all’interno. O addirittura su altre isole più grandi o verso un altro Paese. L’inconveniente non è esclusivamente economico e il trauma psicologico non è solo dovuto alla difficoltà di adattamento a un nuovo ambiente e a nuovi vicini. Nel Pacifico la terra ancestrale è tutto. È parte della vita fisica e spirituale. Perdere la terra è come perdere una parte significativa del corpo. La terra non può mai essere venduta o acquistata come succede in Occidente. La terra può solo essere data in uso temporaneo e rispettoso, a seguito di un preciso accordo tra le parti. Non può mai passare definitivamente di mano dai custodi ancestrali a nuovi proprietari. Difficile e doloroso quindi vedere sparire sotto l’acqua salata il suolo degli antenati; altrettanto faticoso e incerto dover andare ad abitare in un luogo che appartiene ad altri e non sarà mai proprio. Se il cambiamento climatico e l’innalzamento dei mari nel Pacifico è dovuto, come pare certo, ad attività umane, pochi sono consapevoli delle sofferenze che questo comportamento produce nelle comunità costiere del Pacifico.

Comunità ancora più in allarme ora, dopo aver improvvisamente preso coscienza del fatto che, da circa vent’anni, i governi stanno rilasciando licenze per lo sfruttamento minerario dei fondali marini (seabed mining). Il primo progetto dovrebbe essere realizzato dalla Nautilus Minerals, canadese, al largo dell’isola di Nuova Irlanda, in Papua Nuova Guinea. Ma sono decine le licenze già concesse in vari Paesi. La Nuova Zelanda ha già deciso di non rilasciarne di nuove, ma non ha ancora bloccato le esplorazioni e i prelievi di materiale per lo studio delle componenti chimiche del terreno. Facile immaginare le immense risorse di minerali pregiati al di sotto dei fondali marini. Ma nessun dato è stato ancora elaborato (o per lo meno reso pubblico) circa le probabili conseguenze sulla flora e fauna dell’oceano, né sulla minaccia alla necessità di acque limpide a causa della dipendenza dalle risorse ittiche delle popolazioni costiere ed altre attività industriali di trasformazione del pesce.

La società civile, le Chiese e le organizzazioni non governative stanno letteralmente alzando la voce contro le ipotesi di sfruttamento minerario sottomarino nel Pacifico. Per ora forse col risultato di ritardarne le attività; non ancora di scongiurarle. Caritas propone in alternativa il recupero dei minerali pregiati dagli apparecchi elettronici ora buttati in grande quantità, introducendo il concetto interessante di urban mining (estrazioni minerarie in contesto urbano). Le attività umane quindi, come giustamente evidenzia il rapporto, hanno un forte impatto sulla qualità del cibo e dell’acqua, che possono essere facilmente contaminati. Tra le cause principali certamente l’agricoltura moderna e le miniere. In Papua Nuova Guinea si teme per il grande fiume Sepik, con l’inizio delle operazioni da parte di Frieda Mine, molto all’interno del territorio e a monte del fiume e dei suoi affluenti. La stessa sorte è già toccata al fiume Fly, sulla costa meridionale del Paese, morto sempre a seguito dell’estrazione di rame e oro.

A minacciare l’ordinata, sufficiente e poco costosa produzione di cibo sulla terra, nei fiumi e nei mari ci sono però anche le piantagioni intensive, la produzione di biocombustibili, i capricci del clima, le scarse precipitazioni o al contrario i tifoni devastanti, l’eccessiva calura o, sui punti più alti della Papua Nuova Guinea, il gelo improvviso. Gli operatori e ricercatori Caritas hanno però notato che, almeno in questi casi, le lezioni del passato ed uno sforzo di preparazione e stoccaggio preventivo dei prodotti hanno ridotto di molto le sofferenze e le vittime. Così è stato per il tifone Gita sull’isola di Tonga lo scorso febbraio. Il cambiamento climatico avrà conseguenze devastanti nel Pacifico e ci si potrà solo “adattare” nel caso fallisse, come probabile, l’obiettivo dell’accordo internazionale di Parigi del dicembre 2015 di contenere l’innalzamento della temperatura del pianeta a 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali.

Il controllo del clima, come noto, è anche una questione finanziaria. Caritas denuncia che se tutto il mondo si comportasse come ora l’Australia riguardo le attività produttive e l’emissione di anidride carbonica, la temperatura del pianeta salirebbe di 4-5 gradi nei prossimi decenni. Il livello di vita e di ricchezza del mondo sviluppato è incompatibile con la salvaguardia del creato e l’incolumità fisica delle popolazioni più esposte. Caritas considera poi del tutto inadeguate le risorse messe in campo dalla comunità internazionale per mitigare o ovviare alle conseguenze negative che l’attività umana moderna ha sui più vulnerabili del Pacifico.

Gli esperti prevedono che questa parte del pianeta subirà le conseguenze più gravi dell’innalzamento della temperatura terrestre, pur avendo contribuito meno di tutti al problema.

Per la 24esima sessione della Conferenza delle Parti (COP 4) delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, in Polonia dal 3 al 14 dicembre, le Caritas del Pacifico chiedono quindi uno sforzo maggiore dei singoli Paesi per l’obiettivo di contenimento a 1,5 gradi centigradi dell’innalzamento della temperatura dell’atmosfera terrestre. E poi maggiori risorse – economiche e non solo – per le isole-Stato e le nazioni più vulnerabili per prepararsi ai cambiamenti inevitabili e compensare i danni; impegno finanziario per l’ambiente compatibile con i programmi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite; sostegno specifico per le donne, le bambine e i disabili colpiti da processi produttivi e cambiamenti climatici tra loro connessi.

La Caritas australiana chiede al proprio governo, oltre a un maggiore impegno finanziario per le comunità più fragili e più colpite dei vicini Stati del Pacifico, la riduzione del 45-65% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005 e l’abbandono completo di combustibili fossili entro il 2050. Ma servono programmi concreti e credibili per tentare almeno di sfidare la prassi produttiva e finanziaria degli ultimi due secoli.