AL DI LA’ DEL MEKONG
Forse l’abito fa il monaco

Forse l’abito fa il monaco

L’islam che qui ci vive accanto ha lo sguardo dolce e disarmato delle nostre alunne e ci insegna che sono i gesti dell’infanzia a plasmare la vita adulta

 

«Non dimenticherò mai
la raccomandazione di mia madre
» (F. Tantardini)

Tra i nostri alunni abbiamo un giovane monaco buddista e alcuni ragazzi/e di religione musulmana. Sono soprattutto le ragazze, velate secondo la tradizione, ad attirare la mia attenzione, quando mi passano davanti per entrare a scuola. Abbassano sempre lo sguardo per non incrociare il mio. Il loro pudore fa pudico anche me e così imparo da loro. Sono quei veli, di diversi colori, a impreziosire i loro volti, proprio velandoli, quasi come una soglia che li rende inaccessibili, misteriosi, sacri. Di Dio. «Dì’ alle credenti di abbassare i loro sguardi – si legge nel Corano – (…) di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti (…)» (Sura XXIV, v.31).

Indossare il velo tutti i giorni, faticando quando fa caldo o si vorrebbe giocare fragorosamente con i compagni, genera un’abitudine anzi, un’identità che precede di gran lunga il pensiero. È interiorizzata prima che compresa e dunque rimarrà più a lungo. Sappiamo bene che “l’abito non fa il monaco” e che spesso nasconde l’ipocrisia di chi crede fuori ma non dentro. A volte quei veli ci sembrano piuttosto delle prigioni che condannano quelle ragazze a seguire abitudini ancestrali, lesive della loro libertà. Dovremmo dunque dissentire. Eppure credo che l’ápostolo Paolo approverebbe questo quotidiano mettersi il velo, lui che incoraggiava i cristiani a rivestirsi di Cristo (Rm 13,14). Come queste bimbe che si rivestono ogni giorno del Misericordioso e non delle mode a volte magre, spesso costose, imposte dai Media. Non siamo così ingenui da tacere le differenze e le derive fondamentaliste, spesso violente di simili costumi, eppure i 40 bimbi yemeniti uccisi mentre si recavano a scuola, sono stati colpiti da armi di fabbricazione amerciana. Armi non meno violente. Occidente ipocrita, non meno lesivo della libertà altrui. Dentro e fuori. Potremmo continuare all’infinito.

L’islam che qui ci vive accanto però, ha lo sguardo dolce e disarmato delle nostre alunne e ci insegna che sono i gesti dell’infanzia a plasmare la vita adulta. Quel velo è un confine che custodisce il sacro. In un mondo sempre più saturo di informazioni e di possibilità, l’avere/vedere di tutto ci lascia con il sapore di niente. Non si tratta di tornare indietro, di castigare gli istinti e mortificare l’onnipotente “Io voglio-io posso”, ma è altrettanto vero che l’abito dentro il quale cresciamo, vale più di mille catechesi.

L’atmosfera, l’aria che si respira, il modo di vestire, parlare, muoversi e lavorare, possono essere il segreto di un futuro religioso o meno. Ho trovato suggestiva l’etimologia della parola “catechesi”. Deriva dal greco kath’echo – attraverso l’eco.1 A dire che la migliore catechesi è l’eco di una voce, di una presenza. Non una lezione o una spiegazione quanto qualcosa di leggero, sottile, che si intuisce appena, ma che si espande e genera un’atmosfera tutt’intorno. Parole, abiti e abitudini, dovrebbero essere l’eco di Altro. Secondo la cultura khmer l’abito fa il monaco perché le forme visibili sono l’eco permanente di una dimensione invisibile, inafferabile che però grazie all’abito e alle abitudini, ci portiamo addosso. Nel bene e nel male.

Ritengo che il venir meno di abiti e abitudini della fede abbia messo a tacere l’eco di Dio e spento l’ardore di una vita da spendere per Lui. Abbiamo forse la consolazione dei numeri, ma non più delle vocazioni in un’atmosfera complessiva dove poco ri-echeggia di sacro. «Tanto povero e stretto si è fatto il Tempo – scriveva Heidegger – che non è neppure più in grado di ritenere il difetto di Dio come difetto».2

Penso a fratel Felice Tantardini, fabbro di Dio e missionario del Pime in Myanmar dal 1922 fino alla morte (1991), che nel descrivere l’ambiente in cui ha maturato la scelta di farsi missionario, menziona la mamma, prima eco di Dio nella sua vita. Racconta che ogni sera avevano la recita del rosario: «Mio fratello Primo doveva condurla. Noi dovevamo seguire, devoti, senza guardarci l’un l’altro in faccia, per evitare distrazioni (…). Non dimenticherò mai la raccomandazione di mia madre: “Ricordatevi, figliuoli, di non tralasciar mai le vostre preghiere, per quanto brevi; e non mettetevi a dormire come cani!”. Quest’esortazione materna mi è sempre risuonata nell’animo, spronandomi ad essere fedele alle preghiere della sera, in qualsiasi luogo mi trovassi».

Di Felice, cresciuto in un ambiente simile, Tiziano Terzani scrisse che «le sue scelte erano estremamente limitate, ma con ciò aveva un destino». «Oggi le alternative di ciascuno sono molte di più, la mobilità sociale ha aperto a tutti la possibilità di aspirare a qualsiasi cosa, ma con ciò nessuno è più predestinato a nulla». Se chiedessimo ad un bambino in Italia «E tu, che cosa vuoi fare da grande?», nessuno – concludeva Terzani – «risponderebbe “Il missionario in Birmania”».3

1 G.C. PAGAZZI, La voce del pastore. Solo un dettaglio?, Rivista del Clero italiano, 2015 (10), 695 e ss.

2 Cfr. M. HEIDEGGER, La poesia di Hölderlin, Milano 1988.

3 T. TERZANI, Un indovino mi disse, Milano 2003, 78.