Quel filo di ferro tra il Minas Gerais e l’Italia

Quel filo di ferro tra il Minas Gerais e l’Italia

La tragedia delle dighe della miniera di Brumadinho crollate spazzando via le vite di più di 300 persone ci sembra una storia lontana. Ma lo è molto meno di quanto pensiamo, perché il ferro estratto dalla Vale – il gigante estrattivo brasiliano oggi sotto accusa – diventa l’acciaio prodotto anche in Italia

 

Sta passando via come la solita tragedia di una miniera in una zona sperduta del mondo, da archiviare in fretta. Tuttora  – oltre ai 60 morti accertati – ci sono quasi 300 dispersi sotto il fango provocato dal crollo delle dighe della miniera di Brumadinho, nello Stato brasiliano del Minas Gerais; eppure la avvertiamo come una storia lontana. Una tragedia che tocca solo il Brasile. Ma ci sbagliamo. Perché c’è un piccolo dettaglio che nelle scarne cronache di un mondo dell’informazione che non ha nessuna voglia di guardare dentro a queste tragedie, nessuno ha ricordato. Dove va a finire il ferro che viene estratto in queste miniere killer?

Saperlo stavolta è anche abbastanza facile perché l’impresa non è un pesce piccolo, ma uno dei grandi colossi mondiali dell’estrazione dei minerali ferrosi come il gigante estrattivo brasiliano Vale. Controlla l’80% della produzione brasiliana, che a sua volta rappresenta il 20% della produzione mondiale. Non ci vuole molto a capire che tutto quel ferro estratto nel Minas Gerais ma anche nel Parà, uno degli Stati dell’Amazzonia, non si ferma in Brasile. Una buona parte prende la rotta della Cina, sempre alla ricerca di materie prime un po’ ovunque. Ma Pechino non è affatto sola: tra i Paesi che importano minerali ferrosi dal Brasile c’è anche l’Italia. E non da oggi: storicamente il Brasile è tra i fornitori di ferro per la nostra industria siderurgica; un nome per tutti è quello dell’Ilva di Taranto, nel cui porto attraccano le grandi navi che portano il cosiddetto pig iron, un semilavorato che viene utilizzato per produrre acciaio. È una storia non nuova, come ha raccontato più volte padre Dario Bossi, missionario comboniano che in Brasile con la rete Iglesias y Mineria si batte per la salvaguardia dell’ambiente e delle popolazioni locali interessato dall’impianto di Carajás, l’altro mega-impianto di estrazione del ferro della stessa Vale nello Stato del Parà.

Quanti di questi minerali estratti a scapito della salute e ora anche della stessa vita delle popolazioni locali arriva in Italia? Una quota non così marginale. I dati ufficiali della Camera italo-brasiliana di Commercio e Industria dicono che dei 3,56 miliardi di dollari di esportazioni di beni dal Brasile all’Italia l’11% è costituito da minerali. E qualche mese fa il sito Kallanish, specializzato nei mercati delle Commodities, citando dati dal ministero dell’industria brasiliano spiegava che nei primi otto mesi del 2018 l’Italia figurava insieme al Messico al terzo posto tra i Paesi di destinazione del pig iron brasiliano, con una quota del 12% sul totale delle esportazioni.

Quando negli anni Ottanta vi fu il disastro di Bhopal in India il mondo aprì gli occhi sull’operato senza scrupoli dell’industria chimica. Quando qualche anno è fa crollato il Rana Plaza in Bangladesh tutti scoprimmo le condizioni in cui le operaie del tessile lavoravano per produrre gli abiti che indossiamo. Perché – invece – stavolta un disastro di queste proporzioni, frutto di un modo scellerato di sfruttare il sottosuolo, lo liquidiamo come un problema solo del Brasile? Non è anche questo un volto della globalizzazione dell’indifferenza, di cui parla papa Francesco?

È nell’acciaio di tanti prodotti che entrano nelle nostre case il ferro estratto in miniere uguali a quella che ha seminato morte a Brumadinho. Possiamo andare avanti a pensare tranquillamente che quelle morti siano un problema solo di «casa loro»?