Il neo presidente Jair Bolsonaro ha già svuotato di poteri la Funai, l’organismo per la salvaguardia dei nativi. A decidere ora sarà il ministero dell’Agricoltura, sensibile alle pressioni dei latifondisti.
«Il Brasile prima di tutto, Dio prima di tutti». Nella cerimonia ufficiale del suo insediamento – il 1° gennaio – Jair Bolsonaro si è presentato al Paese ripetendo lo slogan della sua campagna elettorale. Ma quello stesso giorno «prima di tutto» l’ex militare vincitore delle elezioni dello scorso 28 ottobre sembra aver pensato a qualcosa di più terreno: liquidare i conti con le aree indigene.
Nel primo atto di governo – quello nel quale ha delineato la fisionomia e le attribuzioni del suo esecutivo – il nuovo presidente ha infatti deciso di ridimensionare in maniera drastica il ruolo e le attribuzioni della Funai, la Fundação Nacional do Índio, cioè l’ente che in Brasile si occupa della tutela delle popolazioni indigene. Nel nuovo assetto istituzionale la Funai passa dalla giurisdizione del ministero della Giustizia a quella del neonato ministero della Donna, della Famiglia e dei Diritti umani. Ma – soprattutto – nel Brasile di Bolsonaro la Funai viene spogliata della sua principale competenza: la demarcazione delle aree indigene, cioè le zone ancora incontaminate della foresta che la Costituzione federale del 1988 prevede siano assegnate in usufrutto permanente alle popolazioni native, che sono poi gli abitanti originari del Paese. D’ora in poi ad avere questo tipo di competenza sarà il ministero dell’Agricoltura; che già di suo non dovrebbe avere grande interesse a veder riconosciuto un diritto esclusivo di una comunità indigena su una vasta area occupata dalla foresta. E per di più nel nuovo governo è stato affidato a Tereza Cristina Dias, fino a ieri presidente della Bancada Ruralista, il gruppo trasversale di deputati più vicino agli interessi dei grandi imprenditori agricoli che da sempre premono per l’espansione dei territori sfruttabili all’interno della foresta amazzonica.
Non ci vuole molto a capire che quella sulla Funai è la prima promessa mantenuta da Bolsonaro: come aveva dichiarato in campagna elettorale, con questo sistema verosimilmente non un ettaro di terreno in più verrà riconosciuto come area indigena in Brasile. E la questione è delicata: nonostante, infatti, siano passati più di trent’anni dall’approvazione della Costituzione che istituiva queste zone protette come salvaguardia per i 305 popoli nativi dopo gli anni dell’assimilazionismo forzato portato avanti dai militari, il processo di delimitazione è tutt’altro che terminato. Delle oltre 1.200 porzioni di territorio rivendicate – per il 90% aree della foresta amazzonica brasiliana – solo un terzo hanno ricevuto l’avallo ufficiale da parte dello Stato. E ve ne sono ben 128 per le quali il processo di approvazione resta ancora in corso e ora quindi dovrà essere sottoposto non più alla Funai, ma al ministero dell’Agricoltura.
Per chi avesse dubbi su quale sia la linea che il nuovo governo brasiliano intende adottare ci ha pensato Bolsonaro stesso a chiarirla con un tweet: «Più del 15% del territorio nazionale – ha scritto il presidente – oggi è delimitato come terra indigena o quilombolas (i villaggi degli afro-brasiliani, discendenti degli schiavi, ndr). Meno di un milione di persone vive in questi luoghi isolati del Brasile, sfruttati e manipolati dalle ong. Integriamo questi cittadini e valorizziamo tutti i brasiliani».
Il riferimento alle ong non è casuale: un altro passaggio contestato del decreto con le attribuzioni del nuovo governo è l’istituzione di una segreteria – affidata all’ex generale Carlos Alberto dos Santos Cruz – che avrà il compito di «supervisionare, coordinare, monitorare e accompagnare le organizzazioni internazionali e non governative» in Brasile. Una definizione che sa molto di una dichiarazione di guerra a tutte le realtà che – in nome della salvaguardia dell’Amazzonia e dei suoi popoli – denunciano ogni forma di sfruttamento indiscriminato della foresta.
Di fronte a questo quadro il Consiglio indigenista missionario – l’organismo ecclesiale che in Brasile riunisce le realtà attive accanto alle popolazioni native – ha preso posizione stigmatizzando la scelta compiuta dal governo brasiliano: «Bolsonaro sta attaccando duramente i popoli indigeni – ha scritto in una nota -, i loro diritti fondamentali alla terra, alla tutela della loro diversità, a essere titolari di diritti e le loro prospettive di futuro. Assegnando la demarcazione delle aree indigene e delle quilombolas nelle mani del ministero dell’Agricoltura il governo viola le leggi e le garanzie scritte nella Costituzione federale. Il Consiglio indigenista missionario – continua il testo della dichiarazione – rigetta pubblicamente questa scelta, che è parte di un disegno messo in atto dalla lobby dei latifondisti e dalle industrie minerarie e del legname con l’obiettivo di scatenare un intenso processo di saccheggio delle aree demarcate, aprendole alle imprese private nazionali e straniere e, in aggiunta a questo, rendendo impraticabile la demarcazione di nuovi territori».
Da parte loro i rappresentanti dei popoli Aruak, Baniwa e Apurinã hanno indirizzato al presidente una lettera aperta in cui scrivono: «Non siamo noi a tenere nelle nostre mani la gran parte del Brasile, ma i grandi latifondisti e l’agrobusiness che possiedono più del 60% del territorio nazionale. E anche l’argomento del “vuoto demografico” nelle terre indigene è vecchio e falso: serve solo a giustificare misure legislative e amministrative che sono a danno dei popoli indigeni».
In gioco non c’è solo la questione ambientale, pur importantissima per tutto ciò che l’Amazzonia rappresenta negli equilibri ecologici dell’intero pianeta. Il nodo vero è lo sguardo nei confronti dei popoli indigeni e delle loro culture. A questo proposito va segnalato anche che il ministero sotto cui ricadranno d’ora in poi le competenze per le politiche in favore delle popolazioni indigene è stato affidato a Damares Alves, un’esponente di quelle stesse comunità evangeliche che tendono a cancellare ogni traccia delle culture e delle tradizioni locali nei villaggi dove arrivano coi loro missionari per aprire nuove chiese.
Proprio Damares Alves, tra l’altro, è stata tra i fondatori di Atini, una ong balzata all’onore delle cronache una decina d’anni fa per Hakani, un video che diffondeva l’idea che l’infanticidio fosse una pratica ricorrente tra le tribù della foresta. Un filmato che fu proprio la Funai – l’organismo che la neo-ministro ora dovrà sovrintendere – a mettere sotto accusa per falso e istigazione all’odio.
Alla luce di tutto questo resta aperta la domanda su quale tipo di «integrazione» abbia in mente il Brasile di Bolsonaro per le comunità indigene. E suonano come un monito le parole pronunciate da Papa Francesco l’anno scorso a Puerto Maldonado, in Perù: «I popoli originari dell’Amazzonia – denunciava – non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora. L’Amazzonia è una terra disputata su diversi fronti: da una parte il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità su petrolio, gas, legno, oro e le monocolture agro-industriali; dall’altra parte, la minaccia contro i vostri territori viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la “conservazione” della natura senza tenere conto dell’essere umano e, in concreto, di voi fratelli amazzonici che la abitate».
Una prospettiva di fronte alla quale il Papa invitava a «dar vita a spazi istituzionali di rispetto, riconoscimento e dialogo con i popoli nativi; assumendo e riscattando cultura, lingua, tradizioni, diritti e spiritualità che sono loro propri». Una sfida, oggi, quanto mai controcorrente a Brasilia.