Alla Casa del migrante di Tijuana, al confine tra Messico e Stati Uniti, i missionari scalabriniani accolgono immigrati centroamericani, ma anche messicani deportati dagli Usa, cercando di dare loro un futuro.
«Iniziamo il 2019 con molta forza e molti progetti: uno di questi è sostenere i membri della carovana dei migranti per la loro integrazione in Messico, mentre aspettano il loro turno per entrare negli Stati Uniti. Allo stesso modo, cercheremo di aiutare i messicani che sono stati deportati qui e le persone che sono state sfollate dal Sud del Paese a causa della violenza e della povertà. È tempo che tutti e tutte abbiano le opportunità e la tranquillità che meritano».
A parlare è padre Pat Murphy, missionario scalabriniano, direttore della Casa del migrante di Tijuana in Messico. Lui è statunitense, ma vive dall’altra parte del confine, mentre migliaia di persone vorrebbero fare esattamente il contrario. A Tijuana sono arrivati, a partire da metà novembre, circa seimila migranti centroamericani. Questa città, in particolare – ma in generale tutto il confine Messico-Usa – è oggi uno dei fronti più esplosivi per entrambi i Paesi. E non solo per le sfide enormi che l’arrivo di migliaia di persone dal Centroamerica pone al Messico e in particolare a questa città di confine; ma anche per la posta in gioco politica che il muro rappresenta al di qua e al di là della frontiera.
Da un lato, sostiene padre Murphy, che si trova in prima linea nell’accoglienza dei migranti, «disastro è la sola parola che mi viene in mente: il Messico non è preparato a provvedere alloggi e servizi per migliaia di migranti».
Intanto, però, alla Casa del migrante – che opera da oltre trent’anni – lui e il suo staff si sono rimboccati le maniche, con impegno e fantasia, per far fronte alle diverse situazioni ed emergenze che si sono presentate: «Prima dell’arrivo della carovana – spiega – la maggior parte degli ospiti della nostra Casa erano messicani deportati dagli Usa. Oggi, il 90% sono migranti centroamericani. Ci stiamo prendendo cura di coloro che chiedono asilo e organizziamo un programma speciale per aiutarli a ottenere un lavoro in città e i documenti necessari. Questo programma – ha aggiunto – è simile a quello dedicato ai deportati messicani che decidono di stabilirsi qui e di ricevere un sostegno dalla Casa per ottenere i documenti ufficiali, una proprietà per vivere e un lavoro stabile.».
Dall’altro lato del muro, la posizione del presidente Donald Trump resta irremovibile. Non solo queste persone non possono e non devono passare, ma il muro va rafforzato «per difendere l’America da immigrati, clandestini, criminali e trafficanti di droga». È una delle promesse che Trump aveva fatto in campagna elettorale e da cui non vuole recedere. Ma è anche un tema su cui si gioca la rielezione del 2020. Attualmente, sono già stati costruiti quasi 400 chilometri di muro e recinzioni, ma Trump vorrebbe arrivare a 800/900 lungo gli oltre 3 mila chilometri di confine, presidiati da 16 mila agenti con droni e gas lacrimogeni che non esitano a usare contro i migranti. Il costo va dai 10 ai 22 miliardi di euro. Soldi che il presidente americano vorrebbe far pagare al Messico, il cui governo, tuttavia, non ha nessuna intenzione di sborsare.
Il Paese, del resto, deve già far fronte all’ondata dei migranti centroamericani che hanno attraversato il Paese e che sono bloccati al confine. Molti sono arrivati a Tijuana con l’idea che nel giro di tre o quattro giorni avrebbero potuto passare negli Stati Uniti. In realtà, devono attendere almeno tre o quattro mesi solo per inoltrare la richiesta di asilo negli Usa. Oppure, in alternativa, devono fare richiesta in Messico e provare a iniziare una nuova vita in questa città di confine.
Amnesty International denuncia da tempo l’atteggiamento delle autorità dell’immigrazione messicana che «respingono regolarmente migliaia di persone provenienti da Honduras, El Salvador e Guatemala, senza considerare il rischio cui andranno incontro una volta rimpatriate. In molti casi, violano tanto le norme interne quanto quelle internazionali».
«Abbiamo ascoltato storie strazianti di famiglie, bambini, donne e uomini fuggiti da un contesto di estrema violenza per salvarsi la vita – ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe –. Invece di fornire la protezione cui avevano diritto, il Messico ha illegalmente voltato le spalle a persone che ne avevano disperatamente bisogno».
Secondo l’organizzazione, circa il 75% dei migranti arrestati in Messico non è stato informato del diritto a chiedere asilo nel Paese, nonostante la legislazione lo richieda espressamente.
Un altro grave capitolo riguarda i messicani deportati, a loro volta, ma dagli Stati Uniti. «Le deportazioni di messicani nelle città di Tijuana e Nuevo Laredo – spiega padre Murphy – continuano a ritmo costante. Abbiamo assistito anche a un cambiamento nel profilo demografico di coloro che sono stati deportati. Stiamo ricevendo un numero elevato di anziani, con un’età pari o superiore ai 70 anni, nonché un numero di persone molto malate o con gravi problemi psicologici. Espellere persone in uno stato di così grande vulnerabilità è una crudeltà ed è contro tutti i principi che gli Stati Uniti hanno difeso sin dalla loro fondazione».
Alla Casa del Migrante, infine, sono ospitati sorprendentemente anche molti africani: «Ogni mese – conferma padre Murphy –
un flusso regolare di migranti arriva da posti come il Camerun o la Repubblica Democratica del Congo. Stanno cercando di sfuggire a sconvolgimenti politici e a persecuzioni che rendono impossibile una vita pacifica».
Il contesto di frontiera, e più in generale la situazione sociale messicana, non facilitano l’accoglienza: in tutto il Paese, infatti, il livello di violenza sta crescendo in modo significativo e drammatico; e nella sola città di Tijuana ci sono stati oltre duemila omicidi da gennaio a ottobre 2018.
Tuttavia, non mancano i segnali positivi. Padre Murphy e il suo staff, infatti, sono impegnati a realizzare un nuovo progetto, il Centro di formazione scalabriniana per i migranti (Cesfom). «Siamo convinti che fornire cibo e riparo non sia sufficiente per fare la differenza nella vita delle persone – sostiene con forza il missionario -. Per questo abbiamo realizzato, non troppo lontano dalla Casa, il Cesfom, un luogo che prova a dare concretezza al sogno dei migranti di una vita migliore». Nel 2018 sono stati realizzati 24 corsi con 2.172 migranti o rifugiati che vi hanno partecipato. Un impegno grande, ma anche un grande segno di speranza per il futuro.