Decine di nazionalità diverse, religioni e culture differenti, molta povertà. Non è un angolo remoto del mondo, ma la periferia di Milano, dove tre missionarie dell’Immacolata sperimentano una nuova presenza.
Di primo acchito si rimane un po’ disorientati. File di palazzi tutti uguali, uno accanto all’altro, inferiate intorno, un po’ di verde dentro, tutto poco curato: facciate decadenti, terrazzini trasformati in verande per recuperare un po’ di spazio, teli di plastica e veneziane inceppate di traverso. Ogni blocco, otto condomini con 24 appartamenti ciascuno. Il tutto moltiplicato per tre. Benvenuti in via Domenico Cimarosa a Pioltello, hinterland est di Milano, periferia della periferia.
Con poca fantasia, non solo architettonica ma anche toponomastica, l’hanno chiamato Satellite questo quartiere costruito negli anni Sessanta. Un tempo ospitava soprattutto lavoratori meridionali e oggi è un pezzo di mondo: 99 nazionalità rappresentate secondo la leggenda metropolitana, realisticamente qualcuna di meno. Ma la sostanza non cambia. A Pioltello, su 37 mila abitanti, 10 mila sono stranieri e vivono quasi tutti qui.
Non fanno eccezione, in un certo senso, le tre missionarie dell’Immacolata che vi si sono trasferite a fine 2018: suor Rosella, italiana di Vimercate (MB), suor Parboti di Rajshahi in Bangladesh e suor Sagaya del Karnataka in India.
Abitano al terzo piano di uno di questi palazzi, una presenza multietnica in un contesto davvero internazionale, multiculturale e multireligioso. Spesso molto povero e problematico. «La multiculturalità è qualcosa che viviamo innanzitutto in comunità», ci raccontano le tre suore nel loro appartamento semplice ma accogliente. Alle pareti, tracce di mondo: il poster del Camerun – dove suor Rosella è stata otto anni e dove è destinata suor Sagaya – ma anche decorazioni orientali che richiamano la Cina e il Bangladesh, da cui proviene suor Parboti. Le due camere da letto sono state a loro volta divise in due, per far posto anche a una minuscola cappellina. Di necessità virtù. E anche in questo si vede lo spirito missionario. Ma soprattutto è evidente nella scelta pionieristica di aprire una comunità proprio qui, «una periferia esistenziale prima ancora che geografica», fa notare suor Rosella. Dove le sfide non mancano: non solo quella della povertà e dei molti bisogni (materiali e no), ma anche quella dell’incontro e del dialogo. Nel palazzo c’è una famiglia egiziana copta, in cortile un centro islamico, dietro l’angolo una chiesa cristiana evangelica. E così via…
Suor Parboti non nasconde la sua perplessità iniziale. «I miei bisnonni sono stati evangelizzati dai missionari del Pime italiani. E quando io stessa ho scelto di diventare missionaria non avrei mai pensato che mi avrebbero mandata in Italia, che per me era il cuore del cattolicesimo». A Pioltello – ma non solo – si è dovuta ricredere: molti italiani ormai non sono più praticanti, e in posti come il Satellite gli italiani non ci sono quasi più. Molti suoi vicini sono bengalesi come lei; basta che scenda in cortile per trovare subito qualcuno che parla la sua lingua. «Un bel vantaggio!», ammette. Molte donne originarie del suo stesso Paese non hanno mai conosciuto una suora: le chiedono se è sposata, che lavoro fa suo marito, quanto guadagna. Lei spiega che è cristiana ed è una religiosa. Ci si confronta su piccole e grandi cose.
Nel quartiere ci sono anche pachistani, srilankesi, egiziani, indiani, marocchini, algerini, albanesi, molti latinoamericani (soprattutto da Perù ed Ecuador) e qualche africano subsahariano. Nello spiazzo di fronte, si gioca a cricket; nella strada limitrofa quasi tutti i negozi sono tenuti da pachistani come pure le macellerie che garantiscono la macellazione halal; l’imam della moschea sotto casa è pure lui del Bangladesh, mentre il responsabile del centro culturale è italo-egiziano. «Ci hanno invitato e spiegato le loro attività – raccontano le missionarie -: la scuola di arabo, la pulizia del quartiere una volta al mese… Ci hanno persino regalato un Corano!».
Anche i vicini di pianerottolo, che sono tra i pochi italiani presenti nel palazzo, hanno portato alcuni doni di benvenuto. Piccoli gesti che contribuiscono a creare relazioni. «Pure in parrocchia – scherza suor Parboti – se ne vedono di tutti i colori! La notte di Natale è stato davvero bello ritrovarci in chiesa tutti insieme, ciascuno con le proprie devozioni e tradizioni, ma tutti uniti ad accogliere la nascita di Gesù».
«È stimolante stare qui, ma è anche una grande responsabilità – interviene suor Rosella -; siamo le prime a “sperimentare” questo tipo di presenza; in un certo senso siamo delle pioniere e questo ci incoragggia, ma anche ci interpella molto».
C’è un lungo percorso dietro questa scelta delle missionarie dell’Immacolata, dentro e fuori la congregazione. Una scelta maturata nel tempo e frutto di riflessione e confronto: missionarie ad gentes, ma a chilometro zero, in un certo senso. Eppure il senso della loro presenza al Satellite non è molto diverso da quello che le porta ai quattro angoli del pianeta. Innanzitutto – e almeno per adesso in questa prima fase – è quello dell’“esserci”, del conoscere e del farsi conoscere, del testimoniare il Vangelo silenziosamente, attraverso le relazioni di vicinato e i gesti della quotidianità.
Lo stimolo è arrivato anche dalla Caritas ambrosiana e dalla Fondazione San Carlo dell’arcidiocesi di Milano, a cui sono stati assegnati tre dei dieci appartamenti sequestrati per morosità. Circa metà degli alloggi, infatti, è sottoposta – o lo sarà ben presto – ad asta giudiziaria e gli sfratti sono all’ordine del giorno, con conseguenze pesanti per molte famiglie. Essendo proprietà private, il Comune – che esce da un periodo di commissariamento – sta facendo molti sforzi. Nel 2016, con il bando periferie, è stata promossa la nascita di uno sportello per l’inserimento lavorativo delle donne e di due negozi sociali dedicati alla consulenza su casa e lavoro e ai giovani. Insieme alla prefettura e al tribunale, è stato creato anche un tavolo di lavoro a cui partecipano alcune fondazioni e cooperative, e anche Caritas e Fondazione San Carlo. L’idea è di riqualificare progressivamente l’intero quartiere, acquisendo e sistemando un po’ alla volta gli appartamenti per metterli a disposizione di famiglie che siano in grado di pagare regolarmente affitto e spese e procedere quindi alla ristrutturazione dei vari palazzi, alcuni dei quali fatiscenti.
Le tre missionarie dell’Immacolata sono un po’ un’avanguardia di questo progetto, che ha coinvolto anche la parrocchia: don Roberto Laffranchi, parroco di Maria Regina, poco distante da lì, ha “benedetto” le nuove inquiline lo scorso dicembre, felice di questa nuova presenza che è anche un “segno” di convivenza e dialogo nel rispetto delle regole. C’è un altro sacerdote, don Luigi Consonni, un passato di prete operaio alla Breda Fucine di Sesto San Giovanni, ma anche un’esperienza missionaria in Ruanda negli anni Novanta, proprio durante i terribili giorni del genocidio. Oggi, si dedica soprattutto ai giovani immigrati del Satellite, con progetti culturali e di integrazione sociale.
«Per noi sono dei punti di riferimento, così come la Caritas che ha un centro di ascolto e di distribuzione a cui si rivolgono molti migranti – dicono le tre suore -; ci aiutano a guardarci intorno e a capire meglio questa realtà così complessa. Stiamo cercando anche di conoscere i vari gruppi e associazioni che vi operano. L’idea è di poter lavorare il più possibile in rete».
Di fondo, però, lo spirito con cui sono lì non è tanto quello di fare qualcosa “per” i migranti, ma di stare “con” i migranti. «Alcuni sono qui da molti anni, altri sono arrivati da poco – dice suor Rosella -; alcuni bambini sono nati in Italia e parlano perfettamente la lingua, altri sono arrivati già grandi e hanno difficoltà a inserirsi a scuola; ci sono le mamme latinoamericane che sono più festose e quelle musulmane più discrete… Noi, come missionarie, vorremmo vivere dentro la realtà del Satellite, cercando di essere aperte a tutti e di essere testimonianza per tutti».