Marocco: la sfida del dialogo

Marocco: la sfida del dialogo

La comunità che accoglierà il Papa in questi giorni riunisce culture ed etnie diverse ma vuole inserirsi nel contesto locale: parla l’arcivescovo di Rabat monsignor López. Che, sull’immigrazione, richiama l’Europa.

 

Una comunità piccola ma «veramente cattolica, nel senso letterale di “universale”» e – senza false modestie – «bella». Dice proprio così monsignor Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, per definire la sua Chiesa marocchina: 30 mila fedeli soltanto – sui 35 milioni di abitanti del Regno – che il 30 e 31 marzo avranno la gioia di abbracciare Papa Francesco, in visita nel Paese 33 anni dopo san Giovanni Paolo II.

Monsignor López, 66 anni, salesiano di origini spagnole, è pastore nella capitale marocchina da un anno, ma conosce bene la realtà locale già dai tempi in cui, dopo due decenni di missione in Paraguay, aveva gestito il Centro di formazione professionale che fa capo alla sua congregazione a Kénitra, tra il 2003 e il 2011.

«Noi cattolici del Marocco proveniamo da più di cento Paesi: il nostro tratto saliente è l’unità nella diversità». Una caratteristica che – c’è da scommetterlo – sarà rimarcata da Francesco nel corso delle due tappe del suo viaggio: la moderna Casablanca, con l’iconica moschea Hassan II che lambisce l’oceano atlantico, e, appunto, Rabat. La capitale, sviluppatasi dalla fortezza (ribat) fatta costruire dal califfo almohade Abd al-Mùmin nel XII secolo, è oggi la sede del Palazzo reale in cui vive Mohammed VI, ventitreesimo sovrano della dinastia alawide, la cui abilità nel placare i movimenti di piazza delle primavere arabe a suon di riforme tempestive (unite al pugno di ferro…) ha permesso al Paese di mantenere la stabilità: rara eccezione nella regione.

Monsignor López, quali sono le priorità per la Chiesa del Marocco?

«La prima è costruire la comunione e viverla tra di noi. È un compito permanente e non facile non solo perché veniamo da luoghi molto diversi ma anche perché la comunità è mutevole, visto che ogni anno il 25% dei nostri cristiani parte, mentre altri arrivano. Una seconda priorità è di incarnarci nel contesto marocchino e nell’ambiente musulmano in cui viviamo. Siamo una Chiesa di stranieri, ma non vogliamo essere una Chiesa straniera. Ciò comporta un grande sforzo per conoscere la lingua, la cultura e la storia del Marocco e anche per stabilire relazioni personali con i vicini, studiare e lavorare con i colleghi, le autorità, le associazioni…».

Qual è il livello di libertà di culto e di libertà religiosa nel Paese?

«Godiamo di piena libertà di culto. Possiamo sviluppare le nostre attività con tranquillità, pace e sicurezza. D’altra parte, la libertà religiosa e di coscienza sono un argomento su cui lavorare. Qualcosa si sta muovendo, ma c’è ancora molta strada da fare».

Le conversioni dall’islam al cristianesimo sono molto scoraggiate…

«Premesso che siamo più interessati alla conversione nel senso evangelico – il cambiamento di vita per avvicinarsi a Dio, che riguarda sia i cristiani sia i musulmani -, come Chiesa cattolica desidereremmo che si adempisse sempre e ovunque il precetto del Corano che dice: “Nessuna coercizione nella religione”, ma devo ammettere che siamo ancora lontani da questo principio. Tuttavia, qualcosa si muove lentamente».

Tra i cristiani del Marocco tanti sono migranti subsahariani: come stanno contribuendo a modificare il volto della vostra Chiesa?

«La stanno cambiando radicalmente. La nostra Chiesa è completamente africana, poiché la maggior parte dei fedeli che frequentano le nostre parrocchie sono giovani studenti universitari subsahariani. Sono “migranti” perché hanno lasciato il loro Paese per venire in Marocco, ma sono qui in un modo completamente legale e con l’obiettivo specifico di studiare. Sono attivi nei cori, nelle comunità ecclesiali di base, nei gruppi di catecumenato e in tutte le attività pastorali a livello parrocchiale e diocesano. In molte delle nostre parrocchie, poi, c’è anche un flusso di migranti il cui obiettivo è raggiungere l’Europa. Per loro, il Marocco è solo un luogo di passaggio, dove arrivano feriti, picchiati, violentati, derubati… persino venduti. Questo dramma ci ha portato a sviluppare la dimensione caritatevole della Chiesa: cerchiamo di essere una Chiesa samaritana, che si ferma accanto al fratello vulnerabile e ferito per curarlo, incoraggiarlo, aiutarlo in ciò di cui ha bisogno».

Per questo avete creato il progetto Qantara: di che cosa si tratta?

«È un’iniziativa che mira a fornire assistenza alle persone più vulnerabili – minori non accompagnati, donne incinte, malati…- tra chi è in transito nel Paese. Attraverso questo progetto, il cui nome in arabo significa “ponte”, cerchiamo di mettere in pratica i quattro verbi proposti da Papa Francesco: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. La Caritas ha sviluppato una vera competenza in termini di accoglienza e protezione, ma agisce anche nella promozione educativa, sociale e del lavoro e nell’integrazione di molti di questi migranti. È un compito intenso e vasto, basti pensare che il programma ha coinvolto più di 8 mila persone in un anno, ma che, logicamente, non può raggiungere le radici del problema, che si trovano nei Paesi di origine e nelle regole economiche e commerciali globali».

Come affronta il Marocco i flussi dei disperati che arrivano in cerca di una vita migliore?

«Da una parte ha dimostrato capacità di accoglienza, attuando due regolarizzazioni in favore di chi ha deciso di stabilirsi qui e legalizzando così circa 70 mila persone. Dall’altra, purtroppo, il Paese sta anche giocando lo spiacevole ruolo del “poliziotto” per conto dell’Europa, che lo paga per impedire il passaggio a chi cerca di raggiungere il Vecchio continente. Ciò significa che ci sono arresti e deportazioni frequenti».

Lei, insieme agli altri vescovi della Conferenza episcopale regionale del Nordafrica, ha aspramente criticato i governi europei per il loro atteggiamento sul tema delle migrazioni: perché?

«Per il loro egoismo e la loro ipocrisia. Perché strangolano i Paesi poveri e in via di sviluppo applicando leggi commerciali sleali e perché sfruttano le risorse naturali e umane di quei Paesi, e poi chiudono le porte ai pochi che vogliono raggiungere l’Europa. Perché sono all’origine di molti dei conflitti armati che causano morte, miseria ed esodi di massa, e poi si lamentano delle conseguenze. Perché si proclamano difensori dei diritti umani, ma negano e impediscono a milioni di persone il più elementare: il diritto di vivere con dignità».

In Italia anche molte persone che vanno in chiesa sostengono la chiusura delle frontiere: che cosa direbbe loro?

«Che non dimentichino che milioni di italiani hanno trovato le frontiere aperte in altri Paesi, in particolare in America Latina, per poter ricostruire le loro vite. Che ricordino che quelli che bussano alla porta dell’Europa sono fratelli, e un giorno verrà loro chiesto: “Caino, dov’è tuo fratello?”. Che tengano in mente che, alla fine dei tempi, verrà loro detto: “Avevo fame e non mi avete dato da mangiare, ero straniero e non mi avete accolto”… Un cattolico (ripeto: “cattolico” significa “universale”!) non può essere un sostenitore dei confini, men che meno dei confini chiusi. Non possiamo costruire muri, dobbiamo creare ponti. Mi dà tristezza e mi preoccupa che ci siano cristiani che hanno quest’atteggiamento di chiusura nella situazione attuale».

Un altro fronte su cui la Chiesa marocchina è in prima linea è quello dei rapporti con l’islam: come descriverebbe l’islam marocchino e quali sono le forme di dialogo che sperimentate?

«L’islam del Marocco è moderato e tollerante, viene definito “l’islam del giusto mezzo”, dell’equilibrio. Con questa religione la nostra Chiesa è in costante impegno di dialogo: uno sforzo che viene portato avanti con impegno e pazienza, con affetto e positività. Il dialogo è dato, soprattutto, nella vita quotidiana, nei rapporti di amicizia e convivenza; ma anche nel lavoro congiunto nei settori dell’educazione, della salute, dell’azione sociale. Abbiamo poi alcuni momenti specifici – pochi ma significativi – in cui condividiamo la nostra fede e preghiamo insieme».

Qual è il ruolo dell’istituto ecumenico Al Mowafaqa, che lei presiede insieme a un rappresentante protestante?

«Si tratta di un istituto ecumenico teologico, cioè di formazione alla fede cristiana, ma incarnato in questa terra. Ecco perché il curriculum include materie come l’arabo, lo studio del Corano, le fonti dell’islam, e poi la cultura, la storia, la legge e la spiritualità musulmane. Svolge un ruolo di promozione ed esperienza di ecumenismo e di dialogo islamo-cristiano, e punta anche ad essere un ponte tra le Chiese del Nord, principalmente l’Europa, e quelle del Sud. L’obiettivo finale è preparare laici, religiosi e sacerdoti, uomini e donne, europei e africani, ad essere cristiani ben formati e impegnati al servizio delle rispettive comunità».

L’istituto è un’iniziativa ecumenica: i rapporti con le altre confessioni cristiane in Marocco sono positivi?

«Molto. Qualche anno fa è stato formato un semplice “Consiglio ecumenico delle Chiese cristiane” che riunisce cattolici, protestanti, anglicani e ortodossi. Operiamo insieme nell’istituto Al Mowafaqa e nella Caritas, ci prestiamo locali per il culto, abbiamo momenti di incontro fraterno, soprattutto durante la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Tuttavia, ci sono molte “Chiese domestiche” di tipo evangelico-pentecostale che non rientrano in questa dinamica ecumenica e non fanno parte del Consiglio».

Papa Francesco ha deciso di venire a visitare il Marocco 33 anni dopo Giovanni Paolo II: quali sono le attese nei confronti di questa visita?

«Attendiamo con impazienza questo incontro, per essere rafforzati nella fede, incoraggiati nella speranza e sostenuti nell’ardore del nostro amore. Sarà anche l’occasione per vedere rafforzate e confermate le nostre opzioni pastorali mentre, dal punto di vista politico, potranno essere approfondite le buone relazioni esistenti tra il Regno del Marocco e la Chiesa e si potrà ratificare, garantire ed estendere il riconoscimento giuridico e sociale delle istituzioni ecclesiali. Più di tutto, mi auguro che questa visita rappresenti una spinta per far avanzare il Regno di Dio, l’obiettivo supremo e ultimo della nostra presenza qui e in qualsiasi parte del mondo»