Il 17 maggio diventa santa la fondatrice della congregazione del Rosario, l’unica nata in Terra Santa. Dalla Giordania al Golfo le “Wardiye”, attive soprattutto nell’educazione, sono un volto della vivace Chiesa mediorientale
Perché le élite musulmane mandano i loro figli in una scuola di suore? Semplice: i genitori si fidano di noi e ci stimano, perché vedono che siamo professionali, competenti e trasparenti».
Così mi spiegava madre Beatrine, religiosa libanese da 49 anni nel Golfo Persico, durante la mia visita alla scuola Fajer al-Sabah di Kuwait City. Nel quartiere di Jabriya, dal 1961 sorge questo Istituto frequentato da oltre 4 mila studenti, dal kindergarten alle superiori. A gestirlo è la piccola comunità delle suore del Rosario, di cui madre Beatrine è la superiora. Convinta che «la nostra missione è educare, e per questo non c’è differenza di fede». Un compito che, come mi raccontava suor Mary-Rose, una consorella giordana in Kuwait da 43 anni, «di questi tempi è diventato molto difficile: gli adolescenti tendono ad essere poco rispettosi, i genitori a volte ci confessano che non sanno più come gestirli! La grande sfida, per noi, è trasmettere loro, oltre a una buona istruzione, valori umani forti. La nostra presenza è la migliore testimonianza cristiana che possiamo offrire».
È racchiuso in queste testimonianze – nella sua sostanza – il carisma delle Rahbat al Wardiya, le suore del Rosario conosciute semplicemente come Wardiye nei Paesi in cui svolgono la loro missione, tutti arabofoni: dalla Giordania al Libano, dalla Siria all’Egitto, passando per gli Emirati Arabi e appunto il Kuwait. E, naturalmente, in Palestina, Israele e anche Gaza. Perché questa congregazione, che oggi conta 250 religiose, fu fondata nel 1880 a Gerusalemme proprio dalla palestinese suor Marie Alphonsine Danil Ghattas (con padre Joseph Tannous, all’epoca cancelliere del patriarcato latino), che il 17 maggio, in Vaticano, sarà proclamata santa insieme alla monaca carmelitana Mariam Bawardi, fondatrice del Carmelo di Betlemme.
Un evento storico, il cui annuncio è stato definito dal patriarca latino di Gerusalemme monsignor Fouad Twal «una rugiada celeste sulla nostra terra assetata di amore e di giustizia e decimata dalla violenza». Una gioia profonda condivisa dalla comunità religiosa delle Wardiye, l’unica autoctona della Terra Santa, impegnata, oltre che sul fronte educativo attraverso scuole e università, in attività di assistenza sanitaria e caritativa con ospedali, orfanotrofi, case di riposo per anziani, senza distinzione di fede.
Viaggiando in Medio Oriente, è facile imbattersi nella loro presenza, soprattutto nei luoghi di riferimento della Chiesa latina, ma non solo. Da Salt, in Giordania, «dove nel 1887 madre Marie Alphonsine insieme a tre consorelle fondò la prima missione in Transgiordania» – mi raccontavano le suore di questa perla architettonica poco distante da Amman, dove gestiscono una scuola e si prendono cura della parrocchia – fino a Birzeit, in Cisgiordania, dove, dal 1885, le loro vesti nere svolazzano tra le aule di catechismo della parrocchia Nostra Signora di Guadalupe e il cortile della scuola. Con una costante: uno stile di presenza discreta, essenziale e quotidiana, totalmente inserita nel contesto locale.
«L’importanza di essere una congregazione araba che opera nel mondo arabo consiste nel fatto che noi suore parliamo la stessa lingua della gente e ne condividiamo mentalità, abitudini e tradizioni», spiega la superiora generale della congregazione, madre Iness Al-Yacoub, dal monastero di Beit Hanina, a Gerusalemme Est. «In più, comprendiamo bene la storia dei cristiani arabi che hanno sopportato guerre e violenze e hanno lottato per rimanere qui in Medio Oriente, dove sono le origini della nostra fede», continua la religiosa. In alcuni contesti, quella delle Wardiye è una presenza letteralmente in trincea.
A Gaza, la scuola delle suore (dal la materna alle medie) sorge nel quartiere moderno di Tel Al-Hawa, quello che fu al centro degli scontri tra Hamas e Fatah prima che Hamas prendesse il potere, ma anche quello pesantemente bombardato dall’aviazione israeliana già ai tempi dell’operazione Piombo fuso, nel 2009, e che ha di nuovo subito i pesanti effetti della guerra l’anno scorso. Oltre all’impegno educativo e caritativo quotidiano, dunque, l’opera delle suore comprende l’azione in prima linea per far fronte ai traumi provocati dai conflitti soprattutto ai più piccoli, e alle emergenze materiali vissute dalle famiglie. Ad Aboud, villaggio palestinese a 22 km da Ramallah, la congregazione del Rosario è un’istituzione da oltre un secolo.
Oggi la casa è gestita da suor Nadia e suor Eva (venuta dalla Giordania), che con la Legio Mariae visitano le famiglie cristiane, in particolare le anziane sole, ma che negli ultimi anni hanno visto crescere le occasioni di collaborare con i musulmani, il cui numero è in aumento. A scuola, gli allievi di religione islamica sono 150, a fronte dei 70 cristiani: una condizione ricorrente nelle scuole delle Wardiye in tutto il Medio Oriente, e che rappresenta una sfida educativa cruciale, a maggior ragione in questa zona del mondo minacciata dall’estremismo.
«La nostra missione è molto importante per educare i giovani ad accettare gli altri e a convivere positivamente», conferma madre Iness Al-Yacoub. «Noi insegniamo il rispetto della fede altrui e il diritto di tutti a vivere con dignità. Oggi nelle nostre scuole ci sono molte alunne musulmane: per noi è un’occasione preziosa per educarle a una mentalità moderata e aperta. In un clima avvelenato dall’estremismo, poi, una delle sfide più difficili è formare i giovani al perdono evangelico».
Un’opera educativa preziosissima, non a caso molto apprezzata dalle istituzioni statali dei Paesi in cui le suore sono impegnate. Tanto che, nelle loro scuole, sono stati formati i rampolli di molte famiglie dell’élite politica.
«In Giordania, le figlie del precedente re, Hussein, sono state nostre allieve – racconta la superiora – e attualmente in Kuwait e negli Emirati Arabi abbiamo tra le studentesse le figlie di alcuni esponenti politici. La ragione è sempre la stessa: la buona educazione impartita dalle religiose soprattutto sul piano umano, visto che noi formiamo i ragazzi alla disciplina e ai valori etici, e naturalmente l’ottimo livello dell’istruzione».
Se il carisma delle Rahbat al Wardiya, dai tempi della neo santa Marie Alphonsine, non è cambiato, le 250 suore che oggi appartengono alla congregazione non si stancano di adeguarlo alle esigenze del presente. Cominciando ogni giornata con la recita del Rosario: carica spirituale per far fronte alle sfide di un Medio Oriente in fibrillazione. Ma anche per adeguarsi con duttilità alle diverse esigenze delle comunità in cui operano. «Nella nostra casa madre di Mamillah, a Gerusalemme, avevamo un pensionato per le alunne interne, ma, poiché lo Stato di Israele oggi preferisce accogliere queste ragazze in famiglia, la casa è stata adattata per l’ospitalità dei pellegrini: una missione in linea con la spiritualità dei luoghi santi. Senza contare che lì si trova la tomba di santa Marie Alphonsine, che speriamo possa diventare una meta importante di pellegrinaggio!».
La santa di Gerusalemme «che visse sulle orme di Maria» e le religiose che ne seguono i passi oggi costituiscono un ottimo esempio di quella cristianità mediorientale che non rientra nello stereotipo del “minuscolo gregge bisognoso” ma che è sale e lievito – spesso con sorprendente vitalità – della società in cui è inserita.
La canonizzazione di Marie Alphonsine e di Mariam Bawardi, in quest’ottica, rappresenta un’ottima occasione per rendere più visibile questa vivacità spirituale, sociale e civile.
«Le due nuove sante – nota ancora madre Iness – hanno vissuto in un tempo simile al nostro, fatto di occupazione e guerre, eppure hanno saputo vivere la gioia del Vangelo. Marie Alphonsine ha lavorato molto per migliorare la situazione terrena dei cristiani, ma sempre aiutandoli a guardare verso il Cielo… Un esempio di cui abbiamo più che mai bisogno oggi, per dimostrarci che è possibile, nonostante tutto, essere uomini e donne di pace». MM