L’India di Modi non corrisponde più all’immagine della grande democrazia i cui limiti dipendono unicamente dalla sua arretratezza storica e dalla litigiosità delle sue classi dirigenti. L’immagine che gli indiani hanno di se stessi e che Modi ha incentivato è quella di una potenza globale
Senza sconti per gli oppositori e nemmeno per chi aveva anticipato un possibile ridimensionamento della maggioranza uscente con al centro il Bharatiya Janata Party di Narendra Modi. Invece, la vittoria del premier uscente è stata netta, se possibile ancor più diffusa geograficamente di quella del 2014 e sicuramente ancora più incisiva in termini di seggi. Oggi – nonostante alcune incertezze dovute alla vastità del Paese, ai 900 milioni chiamati alle urne e agli immancabili disguidi di un sistema di voto elettronico non omogene – l’India è ancora più “in giallo”, il color zafferano che è simbolo dell’induismo tradizionale mutuato dalla politica di chi, anzitutto il Bjp, si rifà ai suoi ideali.
Il voto esteso su sei settimane in sette tornate è stato ancora una volta concomitante per la Camera bassa del Parlamento centrale (Lok Sabha) e per rinnovare i parlamentini di diversi Stati e Territori tra i 37 complessivi in cui è amministrativamente diviso il Paese, che ha una struttura federale. Su 542 seggi parlamentari, al Bjp e agli alleati della National Democratic Alliance ne sono andati almeno 350, mentre al Partito del Congresso – ancora una volta guidato da un Gandhi (Rahul) ma ancora una volta non alla vittoria – ne sono stati attribuiti una novantina, associando anche gli alleati nella United Progressive Alliance. Una crescita sensibile, di oltre il 30 per cento, per l’opposizione organizzata dal Congresso, che però potrà contare su un sostegno ridotto di uguale misura della galassia di altri partiti esterni alle alleanze principali, scesi a non più di 110 seggi dai 138 precedenti.
Le speranze degli oppositori erano basate su una erosione di consensi per lo stile aggressivo e le ricadute negative sulle minoranze etniche e religiose delle politiche nazionaliste e filo-induiste, sui 15 milioni di giovani al voto per la prima volta e, infine, per le pur deboli e frammentarie proposte di opposizioni. Invece, nonostante il rallentamento dell’economia, l’aumento della disoccupazione, le incertezze di crescita, sviluppo e posizionamento globale per il futuro, Modi ha convinto ancora l’elettorato dopo un confronto elettorale che non è solo politico ma anche ideologico, culturale. L’India di Modi non corrisponde più all’immagine per molto tempo proiettata all’esterno (e che l’Occidente aveva accolto) di grande democrazia i cui limiti dipendono unicamente dalla sua arretratezza storica e dall’incapacità e litigiosità delle sue classi dirigenti. Un Paese immenso che condivide con l’Occidente istituzioni liberali, aperto all’influsso esterno e di poche pretese sulla scena mondiale. L’immagine che gli indiani hanno di se stessi e che Modi ha incentivato è invece di una realtà con caratteristiche di unicità e potenzialità nuove.
Di umili origini, Narendra Modi ha basato la sua ascesa politica dopo una lunga gavetta nel suo Stato del Gujarat, sulla pretesa capacità di comprendere umori e necessità della popolazione, a partire dai gruppi meno privilegiati e insieme di garantire al suo Paese una posizione centrale nel mondo, pronto al confronto diretto nel prossimo futuro con la Repubblica popolare cinese. Una volontà che, insieme al carattere deciso e alla semplicità di espressione, lo rendono per tanti, a partire dei giovani, l’unico in grado di garantire anche uniformità e unità alla turbolenta classe politica indiana e di indirizzare l’India verso obiettivi di sviluppo.