Violenze, massacri, schiavitù e migrazioni forzate sono solo alcuni degli elementi che hanno spinto molti indios a nascondersi nell’Amazzonia. Tra le pochi voci in loro difesa c’è anche la Chiesa cattolica
Con la convocazione del Sinodo in programma in ottobre Papa Francesco ha voluto mettere al centro dell’attenzione della Chiesa universale i popoli originari della regione pan-amazzonica. «Le chiediamo di difenderci – è stata l’accorata supplica che una donna indigena ha rivolto al Papa durante l’incontro avvenuto l’anno scorso a Puerto Maldonado in Perù -. Gli stranieri ci vedono deboli e insistono a toglierci il nostro territorio. Se ci riuscissero potremmo scomparire».
Nel gruppo dei popoli indigeni i più vulnerabili sono i gruppi chiamati «in isolamento volontario». Si tratta di popoli che non vogliono avere contatti con il mondo esterno e vivono nelle regioni piú remote e inaccessibili della foresta. È molto difficile avere informazioni precise ma si stima che siano tra i cento e i centocinquanta gruppi che si sono rifugiati lontano dall’uomo bianco. Perché questa fuga? Negli ultimi cinque secoli la storia dei popoli indigeni è costellata di violenze, massacri, schiavitù e migrazioni forzate. Moltissimi popoli sono stati completamente sterminati, altri per salvarsi hanno dovuto nascondersi nelle zone più inaccessibili della foresta. La motivazione per cui non vogliono avere contatto con chi non è indigeno è fondamentalmente questa: le continue violenze che soffrono per mano dei cercatori di oro, dei latifondisti, di chi disbosca illegalmente, dei narcotrafficanti che invadono con la massima facilità i loro territori, che inquinano i loro fiumi con mercurio e pesticidi o portano malattie per noi a basso rischio (influenza o varicella), ma che per loro sono fatali per mancanza di anticorpi. Tra le poche voci che difendono questi popoli la più forte è senza dubbio quella della Chiesa cattolica. Rispettando la loro volontà di non avere contatto, la Chiesa lotta attraverso un organo specifico – il Cimi (Consiglio indigenista missionario) – perché almeno sia riconosciuta la loro esistenza. Far sapere che esistono è infatti il primo passo per proteggerli: già questo va contro i grandi interessi economici che girano intorno all’Amazzonia. In una regione della parrocchia dove sto vivendo la mia missione, l’Alto Solimões, un anno e mezzo fa, alcuni cercatori di oro che – nonostante le molte denunce presentate – stavano espandendo le loro attività illegali, hanno ucciso una decina di indios incontattati conosciuti come «arcieri». Non è stato un fatto isolato, ma una storia che si ripete, perché la vita degli indigeni isolati è minacciata in tutta l’Amazzonia. Lo stesso governo federale del Brasile, che secondo l’articolo 231 della Costituzione avrebbe il dovere di difendere i popoli indigeni, è il primo a non farsi garante dei loro diritti. L’esistenza di questi gruppi è negata o nascosta, perché così diventa più facile rilasciare alle imprese le autorizzazioni per lo sfruttamento del territorio. La logica è semplice: se non ci vive nessuno ci sono meno vincoli, per cui è meglio o nascondere l’esistenza di queste persone o addirittura sterminarle.
Ecco perché la Chiesa non può non accogliere l’appello del Papa assumendo l’audace opzione di difendere la vita degli «indios isolati», gli ultimi tra gli ultimi; difendere loro è difendere l’Amazzonia e tutto ciò che rappresenta per l’umanità e per il pianeta. Ed è anche per questo che il governo federale del Brasile sta dimostrando preoccupazione per il Sinodo. Aveva fatto balenare persino l’idea di inviare a Roma dei suoi rappresentanti, ignorando il carattere ecclesiale dell’appuntamento. La loro paura è che la denuncia della persecuzione alla quale i popoli indigeni sono sottoposti possa pregiudicare l’immagine internazionale del Brasile.