L’orribile massacro di 148 studenti dell’università keniana ha suscitato ben poco sdegno e solidarietà a livello internazionale. Ma anche in Kenya è stato gestito in modo del tutto inadeguato
Freddy e Issa mi accompagnano in giro per Nairobi. Sono i giorni immediatamente successivi alla strage di Garissa. La capitale keniana sembra quella di sempre: la solita metropoli congestionata, affollata, trafficata e inquinata. Solo di fronte ai venditori di giornali alcune persone discutono. C’è ancora una sorta di smarrimento collettivo: 148 morti. Quasi tutti studenti. I loro figli. È una cosa che si fa fatica a pensare. A credere.
I primi giorni non sono ancora quelli delle polemiche, delle accuse e delle recriminazioni. È ancora il tempo dello sconcerto e del dolore. Anche se molto discreto.
Ci fermiamo in una piazza, dove tre artisti di strada mettono in scena uno spettacolo di giocolerie e acrobazie. Si forma subito una piccola folla: bambini (molti di strada), ma anche tanti giovani, adulti, ragazze e signore, chi con la minigonna chi con il velo, chi con la tenuta sportiva chi in giacca e cravatta. Si fermano anche un paio di musungu – occidentali – e gli artisti ne approfittano per scherzare sui bianchi, così come hanno appena fatto con le varie etnie del Kenya, ciascuna con i propri difetti e le proprie particolarità. A suo modo, quel gruppo di persone è uno spaccato di questo Paese: ricco e povero, avanzato e arretrato, un mosaico di etnie, culture e religioni. Nairobi assorbe e fagocita tutto, anche se le differenze restano: i kikuyu in un quartiere, i luo nell’altro, i somali a Eastleight e gli etiopi a Korogocho, mentre i bianchi e gli indiani stanno nelle loro aree ben protette. Garissa sembra lontana. Ma neanche troppo.
Non è da oggi che il Kenya è scosso da scontri etnico-religiosi, alcuni atavici per il possesso delle terre e l’accesso all’acqua, altri fomentati dalla politica, altri ancora riconducibili ai terroristi somali di Shabaab. Da quando il governo ha deciso di inviare le proprie truppe in Somalia nell’ottobre 2011, il Paese conosce un’escalation di attentati. Con due eventi particolarmente drammatici: l’attacco al centro commerciale West Gate di Nairobi nel settembre 2013, che ha fatto ufficialmente 67 morti, e quello all’Università di Garissa, che ha assunto una connotazione religiosa ancora più marcata.
È indubbio che, qui come altrove, l’elemento religioso è entrato prepotentemente sia nell’agenda dei politici che in quella dei terroristi. Ma in entrambi i casi, la retorica divisiva della politica come pure la maschera del jihad, che affascina tanti giovani, nascondono obiettivi di potere, di controllo e di sfruttamento.
«È profondamente sbagliato che i nostri leader sfruttino questa tragedia per fini politici. Il terrorismo non è un tema da campagna elettorale. È una questione di vita o di morte per la nostra nazione», si legge in un editoriale del Daily Nation. Che poi si interroga: «Ma dove sono i nostri leader?». Una domanda quanto mai opportuna all’indomani di questa ennesima e orribile strage, che ha preso di mira dei giovani studenti. E mentre a livello internazionale qualcuno si chiede giustamente se i morti di Garissa siano vittime di serie B – viste la scarsa attenzione e solidarietà del mondo – qui in Kenya viene purtroppo da chiedersi se non sono morti invano. Vittime fuori serie. Perché tutto il peggio che si poteva fare è stato fatto. Non solo nel reagire con una lentezza e un’imperizia fuori da ogni comprensione all’attacco dei terroristi, ma anche nell’onorare le vittime e nel sostenere le famiglie e i sopravvissuti.
Certo, il governo ha indetto tre giorni di lutto nazionale, ma nessuna commemorazione ufficiale e poche scontate parole prima di passare a una velocità sconcertante alle questioni di sempre: corruzione, viabilità (soprattutto!), business e traffici vari… Intanto, i corpi dei ragazzi rimanevano per lunghi giorni allungati per terra all’obitorio Chiromo di Nairobi, con i genitori costretti allo straziante rito del riconoscimento, talvolta addirittura a guardare in bocca alle vittime, molte delle quali sfigurate dai colpi di arma da fuoco alla testa. Alcune sgozzate.
«Una visione sconcertante – racconta un missionario, che ha visitato l’obitorio l’8 aprile, sei giorni dopo la strage -. Genitori e parenti erano lì, in attesa che le spoglie dei loro cari venissero loro consegnate. Ho benedetto i corpi e recitato alcune preghiere con le famiglie, che erano molto riconoscenti per questo. Nessun cappellano era ancora stato lì…», commenta con un po’ di amarezza.
In effetti, colpisce anche la poca tempestività ed efficacia con cui le Chiese hanno reagito a questa strage. Una strage in gran parte di giovani studenti cristiani, uccisi in quanto tali, proprio all’inizio del triduo pasquale.
Solo nel giorno di Pasqua, si sono sentite parole di denuncia e di solidarietà alle vittime e alle famiglie. E una richiesta quasi unanime di impegnarsi di più per garantire stabilità e unità nel Paese.
«I terroristi – commenta padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano, da 27 anni in Kenya – hanno certamente obiettivi politici, ma cercano anche di scavare un fossato sempre più profondo fra la comunità cristiana e quella musulmana per seminare odio e divisione. E questo è il più grande rischio che questo Paese sta correndo».
Le autorità keniane, tuttavia, non sembrano all’altezza di affrontare una simile sfida, in tutte le sue dimensioni: di sicurezza, certamente, ma anche di lotta alla corruzione; economica, per garantire migliori condizioni di vita alla popolazione (il 43,4% vive sotto la soglia di povertà), ma anche educativa, a cominciare dalla riforma di un sistema di istruzione disastroso. Quanto alla gente, fa quello che può. La maggior parte lotta quotidianamente per sopravvivere e, bene o male, per vivere insieme.
Come Freddy e Issa che sono amici e mi accompagnano alla seconda più grande moschea di Nairobi, proprio all’indomani della strage e alla fine della preghiera del venerdì. Abdallah, il custode, ci fa entrare molto gentilmente «Karibu! Tutti sono i benvenuti! Questo è un luogo di pace». Sì, certo, ma quello che è successo a Garissa? Abdallah improvvisamente si rattrista: «Quella non è la religione. Sono dei pazzi. Ma cosa possiamo fare? Denunciare, certo. Ma soprattutto pregare».
Pregano anche i cristiani in questo Venerdì Santo di lutto nazionale. Una della tante Via crucis attraversa il quartiere periferico e popolare di Uthiro. «Non abbiamo paura e nessuno ha rinunciato a venire – dice George Otieno, che è molto attivo in parrocchia -. Ci sono molta tristezza e tanta compassione. In chiesa, abbiamo pregato per le vittime e per tutto il dolore che questi terroristi stanno provocando nel nostro Paese».
Torniamo al Kivuli Centre, il centro per bambini di strada creato da padre Kizito. Che ha preparato la cena per tutti. Freddy e Issa scherzano sul quel mix di cucina afro-italiana. Issa non mangia il maiale. È solo in quel momento che penso che lui è musulmano e Freddy è cristiano. E che Freddy è un luo e Issa un kikuyu. La loro amicizia non cancella le differenze. Ma, come per la maggior parte della gente in questo Paese (e non solo), le differenze non sono necessariamente causa di conflitto. Se maneggiate con cura. MM