Neth Prak, giovane cristiano cambogiano, è in prima linea in difesa dei diritti della sua popolazione tribale minacciata da grandi interessi economici che puntano alla terra e alle materie prime
Li chiamavano i “custodi degli elefanti”, perché nella terra dei bunong i grandi pachidermi vivevano ancora liberi. Finché anche quest’angolo di paradiso del Nord-Est della Cambogia è finito nel mirino della sete di materie prime dell’economia globale. Ma è stato allora che un giovane laico cristiano ha capito che aiutare la sua gente a difendersi e a rialzarsi era la sua vocazione. E così nel distretto di Mondolkiri è cominciata una storia nuova.
Tra i tanti modi nascosti in cui il Vangelo diventa seme nelle periferie del mondo di oggi c’è anche la storia di Neth Prak e della sua gente. Vivono da sempre sulle montagne tra la Cambogia e il Vietnam, i bunong. Come ogni tribù hanno la loro lingua e la loro cultura; prima degli anni di Pol Pot ogni villaggio aveva i suoi elefanti e il loro numero era l’indice della ricchezza.
Da allora molto è cambiato in questa regione della Cambogia, molti khmer vi sono immigrati ma la maggioranza della popolazione resta tuttora di etnia bunong. Contando anche quelli che vivono in Vietnam sono circa 50 mila, praticano un’agricoltura di sussistenza, ma negli ultimi anni si sono trovati sempre più spesso a fare i conti con le grandi compagnie cinesi, coreane, vietnamite e anche europee che ottengono dal governo grosse concessioni fondiarie per lo sfruttamento del legname, per realizzare piantagioni di alberi della gomma, per sfruttare il sottosuolo ricco di oro e di bauxite.
Ed è proprio qui che si inserisce la storia di Neth. Era un ragazzo di diciassette anni quando nel suo villaggio – dove non c’era alcuna scuola – cominciò a frequentare un programma di alfabetizzazione promosso dalla Chiesa cattolica. «Tra i bunong l’animismo è tuttora la forma di religione più diffusa, ma i miei genitori si erano convertiti al cristianesimo tre anni prima e io stesso in quell’anno avrei ricevuto il Battesimo – racconta -. Nel 2001 partii poi per Phnom Penh, a quattrocento chilometri di distanza. Lì avrei potuto frequentare l’High School, ma volevo anche capire che cosa Dio mi stesse chiedendo, mi interrogavo sulla mia vocazione».
Fu nella capitale che Neth incontrò padre Mario Ghezzi, missionario del Pime in Cambogia, oggi direttore di questa rivista. «Padre Mario mi ha aiutato a conoscere Dio e a capire che cosa mi stava dicendo nella mia vita – spiega l’attivista della comunità bunong -. Così ho continuato a studiare, iscrivendomi a una scuola tecnica di informatica. Per poi tornare a Mondolkiri con un diploma». Inizialmente Neth ha lavorato per New Humanity, l’ong legata al Pime che per molti anni ha operato in Cambogia: collaborava ai progetti educativi in cinque villaggi della sua zona.
Nello stesso tempo, però, toccava con mano quanto il problema delle terre si stesse facendo drammatico per la sua gente. «Arrivavano sempre più compagnie – racconta – che toglievano la terra alle comunità indigene. La Socfin, per esempio, una società legata al gruppo francese Bolloré, in un colpo solo aveva assunto il controllo di 10 mila ettari di foresta per la coltivazione dell’albero della gomma. La gente non sapeva che cosa fare, si vedeva privata all’improvviso di tutte le risorse della foresta sulle quali aveva sempre fondato la propria sussistenza: la piccola agricoltura, la caccia, la pesca. Provavano a riprendersi le terre ma sembrava tutto inutile».
È stato a questo punto che Neth si è messo in gioco. Ha iniziato a organizzare la sua comunità, a sensibilizzare l’opinione pubblica, a prendere contatti con le autorità e gli organismi internazionali. A cercare soluzioni praticabili. È nata così nel 2009 la Bunong Indigenous People Association (Bipa), una realtà sorta dal basso con l’obiettivo di migliorare la vita delle popolazioni locali.
La prima sfida è stata ovviamente quella dei diritti sulle terre: «Fino al 2012 è stata molto dura – ricorda Prak -, le pressioni su di noi erano forti, alcuni sono finiti anche in carcere. Un po’ alla volta, però, siamo riusciti a ottenere qualche risposta. Ad aprire tavoli per la soluzione dei conflitti nei quali sono presenti tutte le parti interessate: le comunità dei bunong, i proprietari delle piantagioni e le autorità locali. Sosteniamo i rappresentanti dei villaggi aiutandoli a negoziare. Perché il nostro obiettivo non è impedire qualsiasi intervento nella foresta, ma far sì che lo sviluppo porti davvero vantaggi alle comunità. E la nostra forza è quella di essere espressione di questo popolo: non siamo una ong che quando ha finito il suo progetto se ne va».
Ottenere la tutela del diritto alla terra, però, è solo il primo passo per dare davvero un futuro ai bunong. Perché c’è chi si indebita per comprare i fertilizzanti e poi la sua proprietà la perde comunque; ci sono i giovani ingaggiati per quattro soldi nel disboscamento illegale spesso a rischio della propria stessa vita; ci sono le ragazze vittime di stupri nelle piantagioni. E allora l’unica strada possibile è quella della promozione di uno sviluppo integrale.
«Mandiamo i nostri ragazzi a proseguire i loro studi a Phnom Penh, come hanno fatto con me, affinché poi ritornino e facciano crescere la comunità – continua Neth -. Attualmente ne abbiamo 32 che studiano legge, amministrazione, agraria, medicina, scienze forestali… E con loro promuoviamo percorsi di formazione per gli agricoltori, in modo che siano in grado di affrontare le sfide di un mondo che anche qui sta cambiando, combinando le nostre tecniche tradizionali di coltivazione con l’apertura a nuovi metodi e nuovi tipi di coltivazioni».
Così – pur tra mille difficoltà e tanti problemi ancora irrisolti – tra i bunong è rinata la speranza. E di questo Neth Prak sa bene chi è l’unico che occorre ringraziare. «Queste attività sono un lavoro duro – conclude – ma prego Dio che mi doni sempre la forza per andare avanti. Del resto se guardo alla mia vita credo che sia stato Lui a guidarmi passo dopo passo in questo cammino. Mi ha dato forza anche quando mi stavo un po’ perdendo. No, non stiamo camminando da soli; dietro a tutto questo c’è il suo disegno su di noi»