Nei racconti dei primi missionari, si parla spesso di cibi e tradizioni culinarie locali. Una testimonianza ulteriore della loro attenzione per gli altri popoli. Anche se non mancano diffidenze e pregiudizi
E’ anche grazie alle loro lettere, relazioni e descrizioni che molti europei scoprirono popolazioni, culture, usi e costumi diversissimi. E, perché no, anche alimenti e cibi che mai erano apparsi sulle tavole delle nostre latitudini.
La Biblioteca del Pime di Milano conserva ancora oggi alcuni libri antichi che permettono di ripercorrere quelle scoperte attraverso le descrizioni e talvolta i disegni degli stessi missionari che per primi misero piede in America Latina o in Africa, nelle remote isole del Pacifico piuttosto che in Cina.
Per apprezzare sino in fondo queste testimonianze e “assaporare” il gusto di quelle terre, anche attraverso le loro tradizioni culinarie, è però necessario liberarsi di centinaia di anni di “incrostazioni” per provare a essere lì, con loro, in quelle terre vergini a vedere senza preconcetti quello che loro hanno veduto e vissuto.
Sono racconti a volte al limite del fantastico e a volte impregnati di giudizi (e pregiudizi). Difficile anche per i missionari distaccarsi dalla loro cultura, mentalità e dai costumi nativi: l’incontro con le altre culture diventa così talvolta “paragone”, confronto con quello che si è lasciato nel proprio Paese, e talvolta addirittura “rifiuto”. È umano e succede troppo spesso anche oggi, in un’epoca di globalizzazione, nonostante la mole infinitamente maggiore di informazioni e la maggiore facilità a viaggiare e a incontrare altri mondi. Allora, per poter descrivere un frutto, un cibo sconosciuto o un sapore mai gustato prima , i missionari facevano riferimento all’umile castagna dei propri monti o all’aspro sapore del vino per descrivere una bevanda dal nome tanto strano, che come il vino metteva allegrezza.
E se del fantomatico oro dell’Eldorado non rimane più traccia, sono gli umili frutti di quelle terre lontane che hanno salvato intere popolazioni europee dalla fame o quei piccoli bachi da seta che hanno dato vita a fiorenti industrie tessili in Europa.
Ecco alcuni di questi racconti, brani nei quali vengono descritti frutti, piante e cibi allora sconosciuti e che, in alcuni casi, oggi sono diventati parte integrante della nostra alimentazione.
Carlo Salerio (1827-1870), missionario Pime a Woodlark (Papua Nuova Guinea) dal 1852 al 1855 Ragguagli sugli usi e costumi del popolo woodlarkese Manoscritto conservato presso l’Archivio del Pime di Roma
«Oltre al taro che è il cibo abituale e principale a Mujù, ben pochi sono gli alimenti di loro sussistenza. Stanno bensì sufficientemente di ignami, ma vanno per loro forestieri, e il banano rare volte lo gustano, e il coco questo primario prodotto sotto il tropico, scarseggia grandemente. Il Lebbi (sagù) che abbonda estremamente in tutta l’isola ottenne qualche voga dacchè videro il frequente e aggradevole uso che ne facevamo noi. […]
Il nutrimento animale è scarso assai. Fuori del Kondoi (oppossum) o Kuskus, e qualche rarissima volta il porco, del resto il loro vitto è sempre magro. Anche la superstizione si congiura per la miseria di questo popolo; ella interdice l’uso di varii pesci costantemente, e delle tartarughe 7 mesi ogni anno pel pregiudizio che, mangiandone, deperirebbero infallibilmente tutti gli ignami. Dacchè però videro le nostre campagne rigogliose, ad onta che ci cibassimo di queste carni e che seminassimo le ossa, ci fu più di un contravventore a quest’usanza».
Felice Vaggioli (1845-1921), abate benedettino della congregazione cassinese della primitiva osservanza, missionario in Nuova Zelanda Storia della Nuova Zelanda e dei suoi abitatori Stampato a Parma nel 1891
«La prima cosa che usavano fare i Maori dopo essersi levati al mattino e vestiti, era una copiosa colazione, che in Italia chiamerebbesi colazione alla forchetta, la quale però fra loro facevasi colla forchetta d’Adamo ossia colle dita. Il loro giornaliero nutrimento, che generalmente parlando prendevano in comune, si riduceva a due abbondanti pasti, l’uno la mattina dalle 9 alle 10, e l’altro la sera prima del tramonto del sole. Le donne, in generale, erano incaricate di far la cucina e preparare i cibi per tutta la tribù o villaggio formando esso per così dire una sola famiglia, essendo essi discendenti in gran parte da una famiglia primitiva. I selvaggi della Nuova Zelanda mai cuocevano le vivande o prendevano cibo nelle capanne, essendo ciò strettamente vietato non solo al popolino ma ai grandi capi altresì ed ai sacerdoti di tutte le tribù senza eccezione di sorta. Perciò la loro cucina era intieramente divisa dalle capanne e o si faceva all’aperto, ovvero sotto tettoie di rami».
Giovanni Antonio Cavazzi da Montecuccolo (1621-1678) Istorica descrizione de’ tre’ regni Congo, Matamba et Angola situati nell’Etiopia inferiore occidentale e delle missioni apostoliche esercitatevi da religiosi Capuccini Pubblicato in Bologna, 1687
«Alle rive della Coanza, e del Dande d’incontrano vaste Selve d’Alberi chiamati manghe. Amano terreno paludoso, ò a la corrente dell’acque; perciò cresciuti à straordinaria grandezza, sono più di ogni altra specie utilissimi alle fabriche. Da rami più robusti cadono sino a terra alcune fila grosse, che ripullulano in nuovi tronchi, multiplicano la pianta, sì che il pedale di uno solo basta à formare talvolta una Selva; il che non sempre succede atteso il seccarsi che fanno di mano in mano i più vecchi, restandosi proportionatamente i più giovani. La batata copioso frutto produce: questo al di fuori è rozzo, ineguale e gibboso, lungo un palmo o poco più, e grosso quanto il braccio di un huomo; mà talora allungandosi, diventa ancora più grosso; la sua corteccia è di un colore simile ad un pomo arancio ben maturo; messa sotto le brace riesce di un mediocre sapore, e per esservene in gran copia, torna utile non ordinario alle famiglie, perchè di esso quotidianamente si servono». MM