Il racconto di Peter, 32 anni, del Myanmar: il figlio della medium in cammino verso il sacerdozio
«Un abisso chiama l’abisso
al fragore delle tue cascate», Salmo 42
La vocazione di Peter, 32 anni, di Kengtung, Myanmar orientale, ha radici lontane e un percorso tortuoso. Appartiene all’etnia dei Lahù, una delle tante etnie sparse tra Myanmar, Cina, Tailandia e Laos, presenti da prima che fossero tracciati i confini nazionali. Ciascuna di esse ha una sua lingua e cultura. E pratiche religiose ancestrali dai tratti affascinanti, talvolta inquietanti.
La mamma di Peter, infatti, è una medium, una donna che grazie a particolari poteri e assecondando il culto degli spiriti, interpretando i propri e altrui sogni, sa dipanare le tante controversie della vita. «A lei – racconta Peter – si rivolgono per qualsiasi problema. Le portano un foglio di carta dal quale ritaglia una sagoma umana e la appende sopra il proprio giaciglio per un’intera notte. La mattina seguente è in grado di dare spiegazioni sul particolare problema sottopostogli, in base ai sogni che può aver avuto nel sonno». «La nostra gente è figlia di questa terra e chiede agli spiriti di questa terra una soluzione. Sono spesso “spiriti senza pace” che agiscono grazie alla paura che incutono. Mia mamma ha provato a sottrarvisi ma non ci è riuscita. Anni fa dopo aver espresso il desiderio di abbracciare la fede cattolica si è ammalata ed è rimasta immobile per giorni, forse punita da uno spirito. Poi si è ripresa, ma ha dovuto continuare come medium. Andrebbe tolta dal quel contesto e allora potrebbe farcela».
Peter non ha ricevuto un’educazione alla fede cristiana in famiglia. Primo di sei figli, ha perso un fratello per suicidio e una sorella, concessa sposa ad un cinese di passaggio. Il fratello minore invece milita in un gruppo armato facente capo all’etnia degli Wa, attivo ai confini con la Cina, molto geloso delle proprie terre ricche di minerali preziosi che interessano al gigante asiatico. Quanto al padre, anche lui è morto suicida, indotto dalle metanfetamine che da queste parti chiamano Yama. Letteralmente in lingua Shan Yama significa “horse medicine”. Il nome tradisce la sua devastante natura. Diffusa come droga per affrontare lavori pesanti, è sovente somministrata ai cavalli perché possano rendere di più. Quanto agli uomini, l’uso e l’abuso li rende completamente pazzi. Dopo averla assunta per molto tempo, il papà di Peter è impazzito e si è tolto la vita. È a questo punto che qualcosa cambia.
Un vecchio zio della madre lo chiama. Questo zio è un ex lebbroso che anni prima fu accolto da padre Cesare Colombo, missionario del Pime e apostolo dei lebbrosi nella diocesi di Kengtung (1). Nella missione, lo zio non solo viene curato ma riesce anche a sposarsi con una donna figlia di altri lebbrosi ma che non ha contratto la malattia. Dalla loro unione, non nascono figli. Ed è per questo che venendo a sapere di Peter lo invitano a stare con loro. Proprio grazie alla zia, che Peter chiama “nonna”, il giovane apprende il catechismo e nell’anno 2000 riceve il Battesimo. Anni addietro, padre Cesare aveva comprato delle terre da destinare ad ex-lebbrosi guariti per farsi una vita fuori dalla missione. Il nonno e la nonna, con Peter, si trasferiscono là, nel distretto di Mong Phyak, diocesi di Kengtung, insieme ad altre famiglie di ex-lebbrosi già trasferitesi. Peter da una mano a costruire la casa e ad organizzare la nuova dimora. Nel 2007 il nonno muore. Peter sente che la fede ricevuta deve continuare non solo in lui, ma anche nella sua terra, in mezzo alla sua gente. Per questo decide di farsene carico ed entra in seminario.
«Se ancor oggi penso a mia mamma – racconta – la vorrei con me. La vita che fa non è serena. È un ambiente senza Dio, senza Gesù. Tutti si rivolgono a lei perché faccia qualcosa, ma l’atmosfera attorno è di paura, timore di commettere errori ed essere ancora puniti da quegli spiriti senza pace. Mentre il Dio che grazie ai miei “nonni” ho incontrato, è tutt’altro e vorrei che mia mamma venisse con me». «La mia vocazione nasce dentro una storia complicata eppure riscattata. È “un abisso che chiama l’abisso”, si legge nel salmo 42, pregato durante le Lodi di questa mattina».
Mi affascina l’immagine dell’abisso. Sant’Agostino, nel suo commento al salmo si chiede «Di quale abisso si tratta, e quale abisso invoca?». È un’«intelligenza» – scrive Agostino – «una profondità impenetrabile». Come un cuore che cerca. «Riteniamo che il cuore dell’uomo non sia un abisso? Cosa c’è infatti di più profondo di quest’abisso?».
«Da qui, dal cuore – conclude Peter – muove la supplica verso un altro Abisso che comprenda, sappia custodire e guarire i tanti spiriti senza pace che mia mamma non riesce a placare». Un abisso chiama l’abisso, dunque. Così l’uomo chiama Dio, Dio chiama l’uomo, perché sono abissi della stessa profondità.
Insieme a Peter, altri 27 compagni di classe, con altrettante storie, sono in cammino verso il Sacerdozio.
1. P.Gheddo su P.Colomboin questo articolo