Angkhana e Kumar, i «Nobel» dei diritti umani in Asia

Angkhana e Kumar, i «Nobel» dei diritti umani in Asia

Tra i premiati dell’edizione 2019 del Magsaysay Award la donna thailandese che denuncia il fenomeno il fenomeno degli attivisti fatti scomparire dai militari e il giornalista tv indiano che attraverso la diffusione dell’hindi combatte le discriminazioni

 

Il 9 settembre, a Manila, è stato consegnato il premio annuale soprannominato il “Nobel per la Pace asiatico” che riconosce l’impegno di cinque personalità della politica, della cultura e dell’attivismo che si sono distinte nell’opera – sovente rischiosa – di contrastare violenza, discriminazione, malaffare e corruzione.

Intitolato al terzo presidente delle Filippine indipendenti, il Ramon Magsaysay Award è andato anche quest’anno a individui individuati per la loro “convinzione senza compromessi della fondamentale dignità di ciascuno”: l’avvocato sudcoreano Kim Jong-ki impegnato a contrastare il bullismo; il reporter birmano Ko Swe Win, campione del giornalismo investigativo nel suo Paese; il musicista filippino Ryan Cayabyab, noto per l’impegno sociale attraverso la musica. Inoltre, il riconoscimento è stato consegnato al giornalista televisivo indiano Ravish Kumar e all’attivista thailandese Angkhana Neelapaijit che l’ha accettato come «segno che la voce delle vittime delle violazioni dei diritti umani può essere udita».

Una personalità a tutto tondo quello di Angkhana, educata in una scuola cattolica di Bangkok, ma buddhista e musulmana per scelta, che 15 anni fa ha visto scomparire il marito Somchai Neelapaijit senza averne più notizie, forse il caso più noto di desaparecido in un Paese, la Thailandia, dove esecuzioni extragiudiziali e scomparse opportune di oppositori restano strumenti di controllo della società civile impegnata contro lo strapotere dei militari e delle élite che ad essi si appoggiano. Da allora il suo impegno a favore delle vittime della violenza e del conflitto, soprattutto nel Sud musulmano di cui lei è originaria, non si è mai affievolito. Per meglio consolidare il suo impegno, nel 2009 ha dato vita alla Fondazione per la Pace, rete di gruppi impegnati a fare luce sulla situazione di repressione nelle province meridionali thailandesi e nel 2015 è stata nominata tra i commissari della Commissione thailandese per i Diritti umani.

Diversa per personalità e esperienze la vicenda di Ravish Kumar, 44enne giornalista televisivo indiano, tra i più noti nel Paese per i suoi programmi informativi e talk show sull’emittante Ndtv. Originario di in un villaggio del Bihar, in una delle aree più depresse dell’India, Kumar è arrivato alla fama dopo una lunga gavetta come cronista, distinguendosi con servizi di impegno e forte critica sociale. Diventando anche uno dei più accesi promotori dell’utilizzo attraverso il mezzo televisivo della lingua nazionale, l’hindi, che ancora oggi, a oltre settant’anni dall’indipendenza dai britannici, fatica a contrastare la diffusione dell’inglese. Coraggioso e raro l’impegno di Ravish Kumar a ricordare il ruolo dei mass media in quella che viene abitualmente indicata come “la più grande democrazia del mondo” ma dove spesso la società civile è chiamata a confrontarsi con le sfide del settarismo religioso, i giochi politici, i particolarismi e le discriminazioni che ancora attraversano – come pure la corruzione e l’intimidazione degli avversari – il Paese. Pressioni a cui non sfuggono i mezzi di comunicazione, costretti anche alla chiusura se non conformi. Per questo, l’attribuzione del Magsaysay Award, evento popolare in India, è stato visto come di incoraggiamento alla libertà di stampa nel grande Paese asiatico.