Il senso del Mese missionario straordinario voluto dal Papa spiegato da padre Fabrizio Meroni: «Rimettere al centro l’annuncio di Gesù e farne il criterio con cui valutare tutta l’opera della Chiesa»
Un’occasione speciale per «rimettere al centro l’essenziale, cioè l’annuncio di Gesù, e farne il criterio con cui valutare l’efficacia della testimonianza della Chiesa». È questo il senso del Mese missionario straordinario voluto da Papa Francesco secondo padre Fabrizio Meroni, del Pime, segretario generale della Pontificia unione missionaria. Padre Meroni, che è anche direttore del Ciam (Centro internazionale di Animazione missionaria) e dell’agenzia Fides, è un promotore instancabile del rilancio della missio ad gentes, che sarà al cuore di questo mese nel centenario della lettera apostolica Maximum illud, firmata da Benedetto XV e considerata la “Magna Charta” dell’attività missionaria nell’epoca contemporanea.
Padre Fabrizio, quali sono i punti del testo di Benedetto XV che Papa Francesco intende rilanciare?
«Il motivo fondamentale della ripresa della Maximum illud, alla luce del Concilio Vaticano II, della Evangelii nuntiandi di san Paolo VI e soprattutto della Redemptoris missio di san Giovanni Paolo II, è la volontà di rimettere al centro della Chiesa e della sua missione il rapporto della fede con il mondo: la fede come incontro personale e comunitario con Gesù Cristo vivo nella Chiesa, il mondo come culture e religioni da trasformare e convertire a Cristo. C’è quindi una rinnovata volontà di prendere sul serio i contesti e le lingue locali in un processo di interculturalità: il Vangelo e la fede cioè vanno comunicati in culture specifiche, ma ormai molto aperte alla visione cosmopolita delle comunicazioni e della virtualità digitale. L’intuizione di Benedetto XV sulla necessità di separare l’annuncio da qualsiasi scoria coloniale o politica, poi, chiede alla missione della Chiesa di abbandonare ogni collusione ideologica, di destra o di sinistra che sia».
Che cosa significa, nella pratica, essere una Chiesa più missionaria?
«Vuol dire tornare a prendere con serietà l’interesse per la salvezza cristiana. La missione, per motivi anche sociologici, per certi aspetti ha dimenticato che il cuore dell’annuncio è la salvezza delle persone e dell’intera creazione: in mancanza di questo la Chiesa si riduce a una semplice ong. Il primo annuncio ai non cristiani è il paradigma di tutta l’evangelizzazione, anche nella pastorale ordinaria».
Qual è l’esortazione alla Chiesa europea? Su che cosa siamo carenti? Forse noi stessi abbiamo dimenticato “la gioia del Vangelo” di cui parla il Papa?
«Viviamo un’autentica crisi di fede che sfocia nella insignificanza delle Chiese europee per la nostra società. Eppure, in questo contesto, grazie a Dio si scorgono già segni molto positivi di una grande primavera, che si manifesta nella santità quotidiana di molti cristiani che vivono il Vangelo nonostante le chiese si svuotino, nella vitalità dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, nella grande generosità espressa da tanti semplici fedeli, anche nell’anonimato, attraverso le forme di carità cristiana.
E poi, il segnale forse più incoraggiante: la presenza, a volte plurisecolare oppure in forme nuove, di esperienze di vita monastica, claustrale e contemplativa. Insomma, se si è persa la fiducia nelle istituzioni ecclesiastiche tradizionali, che diventano senza sapore, non si è però persa la fede».
Quali sono le nuove frontiere della missione, i contesti più urgenti oggi?
«In realtà si tratta della sfida di sempre, che però negli ultimi decenni è stata in parte dimenticata a favore di iniziative pratiche, pur lodevoli, dal dialogo all’impegno sociale, e cioè la prima evangelizzazione. Dobbiamo recuperare la consapevolezza delle realtà non cristiane: la fede è missionaria se si interessa al mondo. Una forma significativa di nuova missionarietà la vedo nei santuari, sempre più diffusi anche in Chiese minoritarie, grossissimi centri di propulsione della fede perché lì l’uomo incontra Gesù che si interessa di lui, della sua vita reale».
La carenza di “personale” missionario come ci deve riorientare? Scorge nuove modalità di missione significative, con protagonisti anche laici e famiglie?
«Molte realtà missionarie tradizionali sono in crisi perché hanno perso la passione per la fede e si sono ridotte, come dicevo, a promuovere ong. Le nuove forme di passione per l’annuncio e la testimonianza della fede mi sembra di scorgerle nei movimenti ecclesiali, nelle nuove comunità: il cammino neocatecumenale, i carismatici… in cui trovano spazio laici seriamente impegnati nella missione».
Anche le Chiese tradizionalmente di missione sono chiamate oggi a essere missionarie a loro volta, e già lo sono: in che modo? Qual è il valore aggiunto che possono offrire?
«Il valore principale è che sono loro stesse frutto della missio ad gentes di tanti e tante che hanno dato la vita, anche fino al martirio, e di questo hanno nel dna una memoria più viva, perché storicamente più ravvicinata. Oggi, dunque, rispondono a questa generosità attraverso una testimonianza che spesso diventa a sua volta martirio di sangue e sono veramente missionarie perché si prendono a cuore i bisogni materiali di tanti poveri e reietti. Senza contare la loro grande forza di invio: se pensiamo alle migrazioni, ci accorgiamo che noi riceviamo cristiani che vengono a svolgere servizi nella nostra società e portano con sé la fede, per esempio accudendo i nostri anziani, o i nostri bambini, da veri cattolici. Sono testimoni e ci sostengono nella fede. Sperimentando, nelle proprie società, una presenza ancora abbondante di missionari provenienti da lontano, queste Chiese hanno imparato che si può annunciare il Vangelo essendo stranieri. Un esempio brillante di questo fenomeno sono i tantissimi indiani e filippini che hanno riportato il cristianesimo nei Paesi del Golfo Persico».
Una Chiesa missionaria ha qualcosa da dire anche alla nostra società europea e italiana? Che tipo di input siamo chiamati a dare al nostro contesto sociale, politico, culturale?
«C’è bisogno di una formazione missionaria continua, che ci spinga ad interessarci dell’umano per aprirlo al divino, visto che il divino si è già aperto all’umano. Oggi fatichiamo a offrire una testimonianza che l’altro “mi interessa” non solo perché ha bisogno di me materialmente ma, attraverso le sue necessità, ha bisogno di vita piena. Il cristiano deve essere in grado di generare cultura. Dobbiamo riprendere con creatività ciò che sottolineava Giovanni Paolo II nella esortazione Christifideles laici: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”».