Grazie ai suoi 40 anni di impegno per la riconciliazione a Mindanao, padre Sebastiano D’Ambra ha vinto il Premio intitolato a don Andrea Santoro, che gli viene consegnato oggi a Roma. E in questa intervista racconta le sfide del Paese, alla vigilia di un anno speciale per le Filippine
Cinquecento anni di fede cristiana: nel 2021 le Filippine celebreranno l’arrivo del Vangelo nell’arcipelago, oggi il terzo più grande Paese cattolico al mondo. Un appuntamento eccezionale, in preparazione al quale la Chiesa locale ha deciso di dedicare l’anno prossimo al dialogo interreligioso, all’ecumenismo e ai popoli indigeni.
Una scelta significativa, che tuttavia non coglie certo impreparato padre Sebastiano D’Ambra, missionario del Pime approdato al Paese asiatico nel lontano 1977. «Quando arrivai nel distretto di Siocon, nell’isola di Mindanao, presto concentrai l’attenzione proprio sui gruppi tribali e sui musulmani: tra questi ultimi e i cristiani regnava un clima di odio feroce, già infuriava il conflitto tra ribelli islamici e governo e io capii che dovevo provare a fare da ponte tra le comunità», racconta il missionario, nato nel 1942 ad Acitrezza (Ct). Una vocazione che avrebbe trovato pieno compimento nella più nota creazione di padre D’Ambra, il movimento per il dialogo Silsilah, nato a Zamboanga City nel 1984 e ora diffuso in varie zone del Paese e all’estero.
È proprio per questo impegno quarantennale che il Centro missionario della Diocesi di Roma ha scelto il religioso del Pime per assegnargli il neonato Premio intitolato a don Andrea Santoro, sacerdote fidei donum romano ucciso a Trabzon, in Turchia, nel 2006, grande testimone del dialogo islamo-cristiano. Il riconoscimento, assegnato «a chi nel mondo si è distinto per l’impegno nell’annuncio del Vangelo ad gentes, nel dialogo interreligioso e nella promozione umana», viene consegnato a padre Sebastiano e ad altri quattro missionari il 26 ottobre, nel cuore delle celebrazioni per il Mese missionario straordinario.
Padre D’Ambra, come è nata questa passione per il confronto con l’islam?
«Nei miei primi anni di presenza nelle Filippine, grazie all’impegno di avvicinamento ai musulmani, mi trovai a lavorare per il processo di pace con alcuni gruppi ribelli. Questo coinvolgimento, però, disturbò qualcuno, tanto che per le troppe minacce che ricevevo dovetti lasciare il Paese. Rientrato in Italia, mi iscrissi al Pisai, Pontificio Istituto di Studi arabi e d’Islamistica, e approfondii la conoscenza della religione musulmana, in particolare il sufismo. Furono due anni di profonda riflessione, di studio e preghiera, e quando l’Istituto mi chiamò a ricoprire l’incarico di superiore regionale delle Filippine, posi la mia sede a Zamboanga, importante città multiculturale e multireligiosa nell’isola di Mindanao, nel Sud del Paese, e lì diedi inizio a questo movimento che chiamai Silsilah, in arabo “legame”.
Mentre, in quel contesto, il dialogo era percepito come una strategia per implementare il processo di pace, noi volevamo sottolineare che esso rappresenta un modo di vivere, un impegno quotidiano, una cultura che interessa il rapporto con noi stessi, con gli altri, con Dio e con il Creato».
Qual è il fulcro del vostro impegno?
«Abbiamo iniziato con incontri settimanali di riflessione e preghiera spontanea. Poi sono nati i corsi di formazione, rivolti dapprima al nostro gruppo e poi estesi a livello nazionale. Oggi quello del Silsilah è un corso riconosciuto, che ha formato migliaia di leader impegnati nella Chiesa e nella politica, non solo nelle Filippine.
Sono venuti poi i Silsilah Forum, che riuniscono i nostri ex alunni in varie città del Paese: sotto la guida di un coordinatore cristiano e di uno musulmano, si portano avanti attività di sensibilizzazione e di solidarietà. Proprio all’azione concreta per i più bisognosi è dedicata l’esperienza di Emmaus: un piccolo gruppo di cattoliche laiche consacrate, che condividono la nostra spiritualità, hanno creato una scuola elementare in una zona molto povera, in un’isola con abitanti totalmente musulmani, e sette piccole scuole qui in città. E ancora, gli “Inter-faith Council of leaders” riuniscono esponenti religiosi stimati dalle rispettive comunità che portano avanti insieme l’istanza del dialogo e intervengono nelle dinamiche sociali secondo le necessità, in un processo volto a creare delle “Harmony zones”, “Zone di armonia” sul territorio. E, naturalmente, abbiamo molte iniziative di preghiera, che sono alla base di tutto il nostro lavoro».
Attualmente lei è il segretario della Commissione per il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale filippina: come sta lavorando a livello di Chiesa locale?
«Non tutti i nostri vescovi e sacerdoti sono convinti dell’opportunità del dialogo: alcuni lo dicono apertamente. In vista dell’anno prossimo ho scritto un libro che diventerà il sussidio ufficiale per la formazione in tutte le diocesi e gli Istituti religiosi. Al centro c’è il documento sulla Fratellanza umana firmato da Papa Francesco ad Abu Dhabi. Faremo dunque giornate di formazione, sia per il clero che nelle scuole, mentre sto compilando un inventario dei vari gruppi, dalle università alle ong, che nel Paese già operano su questi temi, in modo che il lavoro di quest’anno straordinario possa poi continuare nell’ordinario.
Recentemente, poi, ho presentato alla Conferenza episcopale la proposta di riconoscere finalmente come martire padre Salvatore Carzedda, del Pime, collaboratore del Silsilah, assassinato nel 1992: alcune nuove testimonianze riaffermano che padre Salvatore è stato ucciso proprio per il suo impegno di dialogo, osteggiato da alcuni gruppi più radicali».
Com’è oggi la situazione a Mindanao?
«Sebbene non si possano negare i passi avanti degli ultimi anni, questo è un momento di confusione e paura, in cui i cristiani temono la crescente influenza dei gruppi islamisti più radicali e violenti, mentre i musulmani stessi sono sempre più divisi al loro interno. Se c’è chi è stanco dei conflitti e vorrebbe una vita più serena, gli estremisti non demordono, foraggiati anche dall’estero. È in atto pure un grande sforzo per islamizzare i cristiani. E la violenza periodicamente riesplode: è successo cinque anni fa a Zamboanga, poi due anni fa a Marawi.
Si tratta di un problema antico: i ribelli musulmani rivendicano queste terre. Il presidente Duterte ha finalizzato un accordo con il Fronte di Liberazione Islamico Moro, istituendo la “Regione autonoma Bangsamoro nel Mindanao musulmano”: un risultato più concreto rispetto al passato. Ma noi sappiamo che non è la soluzione definitiva, perché già all’interno dei diversi gruppi ribelli si vede una certa divisione. L’unica strada è lavorare con pazienza alla base per promuovere la via della convivenza. Una sfida difficile che però non dobbiamo avere paura di affrontare».