Il governo di Narendra Modi ha chiesto alla Corte suprema di evitare che l’India diventi «il paradiso mondiale della maternità surrogata». Ma restano molte le contraddizioni nell’atteggiamento di New Delhi rispetto a una forma di sfruttamento che colpisce migliaia di donne
Il 27 ottobre, il governo indiano ha deciso di chiedere alla Corte suprema di bandire la pratica della maternità surrogata commerciale per impedire che l’India diventi “il paradiso mondiale della surrogata”. Per il governo, è volontà dell’esecutivo non favorire “la maternità surrogata commerciale in alcuna sua forma”.
Una conferma della volontà di andare verso un blocco dei permessi, sia per quanto riguarda i committenti stranieri, sia per donne di nazionalità diversa da quella indiana disposte a fornire un servizio – a volte fornito sotto coercizione o per necessità economiche – che finora ha visto l’India all’avanguardia in Asia. Un’ “industria” fiorente, quella locale, che si avvale di un’ampia rete di cliniche, intermediari, medici e sanitari.
L’intenzione dichiarata del governo nazionalista guidato da Narendra Modi è di rendere disponibile la pratica della maternità surrogata “solo per coppie indiane”. Ufficialmente una posizione a tutela delle donne, in particolare quelle dei settori più poveri della società indiana che gli stessi estremisti indù che hanno nella maggioranza di governo i loro referenti politici, relegano in posizione subordinata, negando possibilità concrete di affrancamento economico e emancipazione.
Negli anni, l’India è diventata una delle destinazioni più gettonate al mondo per la maternità surrogata internazionale, di fatto ora l’unica legale, con migliaia di donne che “prestano” gli uteri per gravidanze su commissione, con embrioni concepiti in vitro. In questo senso, l’azione governativa è chiaramente contraddittoria: in precedenza era stata la Corte suprema a chiedere al governo di sveltire l’approvazione di una legislazione in materia di surrogata commerciale, ritenendo la situazione attuale favorevole “a un turismo della surrogata”.
Lo scorso anno, la vicenda della donna indicata dai medi indiani come Phulmani aveva aperto una breccia nell’omertà e negli interessi che hanno finora nascosto un’altra delle piaghe dell’India. A partire dall’età di 13 anni la donna oggi 31enne è stata costretta a ospitare in grembo sei figli di altre coppie che le sarebbero stati tolti dopo un periodo di allattamento al seno.
Una condizione che ha reso il suo caso, se possibile, ancora più simbolico e atroce rispetto alle 10mila coetanee che ogni anno, stimano i gruppi per i diritti umani, diventano oggetto di tratta dallo Jharkhand, Stato tra i più poveri e arretrati dell’India. Uno sfruttamento che non sempre ha sede nella lontana capitale, ma sovente anche le precarie abitazioni dei villaggi, dove le donne danno alla luce bambini presto tolti loro in cambio di cifre modeste e, a volte, solo di minacce.
I dati diffusi da Bachpan Bachao Andolan, il movimento fondato dal premio Nobel per la Pace Kailash Satyarthi segnalano che degli 80mila minorenni da lui finora salvati dalla sfruttamento, fino al 20 per cento sono originari degli Stati di Jharkhand e Bihar, la cui arretratezza rende le loro figlie schiave di abusi, interessi economici e necessità procreative altrui.
Oltre un anno fa (6 e 7 marzo 2014), un incontro di dipartimenti e ministeri del governo sulle prospettive della bozza della Legge per la (regolazione della) Riproduzione assistita 2013 aveva avuto come risultato la proposta di revisioni sostanziali.
La più significativa, quella di limitare la pratica solo a “coppie indiane non fertili”, negandola a stranieri se non sposati a cittadini indiani. Indiani non residenti, individui di origine indiana e cittadini indiani all’estero possono pure essere ammessi. Ciò che si cerca di raggiungere, secondo queste indicazioni che paiono ora in via di accoglimento, è la prevenzione dello sfruttamento di donne indiane che potrebbero rendersi disponibili e rischiare per necessità economiche.