Ritorno in fattoria

Ritorno in fattoria

Padre Bellati ha vissuto nella “farm” creata per i disabili dalla ong Huiling: un progetto sostenuto dal Pime nell’anno dedicato alla Cina in occasione dei 150 anni di presenza dell’Istituto nel Paese asiatico

 

Parto da Hong Kong al mattino. Due ore di treno mi portano alla metropoli di Guangzhou, poi prendo la metropolitana, un autobus, faccio anche due passi a piedi e prima di mezzogiorno arrivo alla farm, la fattoria.

Sono ritornato nel luogo che avevo lasciato due anni fa. Lungo il tragitto ho potuto provare la nuova linea metropolitana, ho visto i centri commerciali aperti da poco, ho notato i piloni della linea dell’alta velocità in costruzione e soprattutto i lavori in corso per raddoppiare la larghezza della strada. Tutte queste novità mi fanno capire che la metropoli si sta avvicinando velocemente, quasi minacciosa. Eppure varcare il cancello di ingresso della farm ancora oggi dà un senso di grande pace.

La farm è uno dei tanti progetti della ong cinese Huiling, con cui i missionari del Pime collaborano da anni, e il cui obiettivo principale è migliorare la qualità della vita di ragazzi e ragazze con problemi di disabilità mentale e creare le condizioni per un loro inserimento nella società. Il progetto della fattoria è stato avviato dieci anni fa, soprattutto grazie alle idee e all’iniziativa di padre Fernando Cagnin, con lo scopo di creare un ambiente bello e accogliente, fuori dalla città, dove i ragazzi disabili possano vivere e anche lavorare autososte­nendosi.

All’inizio c’erano tre casette, il pollaio e i campi. Poi, col tempo, anche grazie all’aiuto tecnico di un amico italiano, le case sono diventate sei. Una è un grande salone adibito all’accoglienza che, al bisogno, viene trasformato in ristorante dotato di cucina e di un grande forno a legna per la pizza.

Appena arrivato alla farm, saluto con emozione i ragazzi con i quali ho vissuto quattro anni di vita quotidiana. È subito una festa di abbracci, di urla, di fotografie. Poi la ragazza più grande mi porta a vedere la nuova gabbia dei conigli, il più giocherellone invece mi invita a provare la nuova sedia sdraio. Appoggio lo zaino in terra, mi siedo comodamente, comincio a dondolare e, mentre lo sguardo si perde tra le nuvole bianche nel cielo, tanti ricordi mi affiorano alla mente.  Mi viene in mente l’entusiasmo dell’inizio, quando pensavo con soddisfazione: «Qui siamo veramente fuori dal mondo». Quel senso di solitudine in principio sembrava semplicemente una bella avventura, sebbene in seguito si sarebbe trasformato anche in sofferenza.

Rivedo le tante giornate di lavoro per tagliare l’erba o i rami degli alberi, il cantiere per costruire le nuove stanze per gli ospiti, i fuochi accesi durante la stagione autunnale. Ripenso alle giornate più frenetiche quando, senza esperienza, ci disponevamo ad accogliere i primi gruppi di visitatori. Sorrido ripensando a quando accompagnavo i bambini delle scuole a visitare i 150 campicelli di basilico, carote, finocchi e insalata…

Viene anche nostalgia ricordando quei giorni in cui italiani e cinesi, “abili” e “meno abili”, ci sentivamo uniti, senza tensioni e contenti di essere assieme.  Quando tutti insieme raccoglievamo la frutta dalle centinaia di alberi che circondano le case, qualcuno saliva sugli alberi, qualcuno stava sotto, altri facevano le foto, altri mangiavano furtivamente i dolci frutti che cadevano sull’erba, ed era così bello che non ci accorgevamo nemmeno del caldo torrido di luglio. Quando alla sera giocavamo sul prato all’aperto o ci scatenavamo in balli al chiaro di luna, e non veniva mai sonno. Quando amici italiani del cammino di Giovani e missione venivano a stare con noi per qualche settimana e la qualità della vita diventava ancora più alta.

Mi tornano in mente i momenti di soddisfazione, ma anche quelli in cui ci sentivamo incapaci di raggiungere gli obiettivi prefissati e veniva voglia di lasciar perdere tutto.

Ripenso anche agli “scontri culturali” tra noi volontari italiani e gli altri lavoratori cinesi. Questi scontri mi hanno insegnato che noi missionari siamo sempre in casa d’altri, che i progetti non sono di chi ci mette il denaro ma appartengono alle persone che vivono e continueranno a vivere in quel luogo, che le persone non hanno bisogno di essere aiutate ma di realizzarsi.

Mi alzo dalla sedia sdraio e mi abbandono a una giornata spensierata da vivere con amici nuovi e amici di una volta. La farm è ancora qui, è diventata ancora più bella. Ora ci sono dieci ragazzi, tante galline, una mucca, le caprette, i maiali, le api, i fiori, tanto ordine. Ci sono ancora problemi, ancora motori che non funzionano e due tetti da rifare.

Da un anno qui vive anche un sacerdote cinese, dotato di passione e competenza. Spesso accoglie gruppi di persone che vengono per qualche ora di ritiro. Facciamo una bella chiacchierata.

La sera riprendo il treno verso Hong Kong per tornare alla mia attuale quotidianità. Ogni pezzo di vita missionaria ti insegna qualcosa, ti fa crescere e ti mette la voglia di ripartire sapendo che anche da altre parti in futuro ci sarà qualcosa da imparare e qualcosa di cui ringraziare.