Il premier dell’Etiopia alla consegna del Nobel a Oslo: «La pace porta frutti solo quando è piantata nel suolo della giustizia». Ma per lui resta la sfida della pacificazione nel Paese e l’orizzonte delle prossime elezioni previste a maggio 2020.
«Prima di poter raccogliere il dividendo della pace dobbiamo piantare i semi dell’amore, del perdono e della riconciliazione nei cuori e nelle menti dei nostri cittadini». Il premier dell’Etiopia Abiy Ahmed Ali ha commentato con queste parole il premio Nobel per la pace 2019 durante il discorso ufficiale pronunciato martedì 10 dicembre a Oslo durante la cerimonia di consegna. Un intervento nel quale – l’uomo delle riforme e della svolta nella pace con l’Eritrea – ha affermato l’auspicio che il Corno d’Africa «possa diventare un tesoro di pace e di progresso», anziché «un campo di battaglia per le superpotenze o un nascondiglio per i mercanti di terrore e i broker della disperazione e della miseria».
Sfide importanti che devono fare i conti, però, con le tensioni etniche che in questi ultimi mesi sono tornate a farsi sentire in Etiopia. Poco dopo la metà di ottobre – proprio pochi giorni dopo l’annuncio del Nobel – partendo dalla capitale Addis Abeba, erano cominciata un’ondata di proteste contro Abiy, sostenuta dall’attivista politico Jawar Mohammed, fondatore dell’agenzia di comunicazione indipendente Oromia Media Network. Alleato di Abiy e suo sostenitore quando si trovava negli Stati Uniti in esilio, Jawar una volta rientrato ha cominciato a criticare le riforme economiche e le politiche del presidente con un largo seguito sui social network. E la polizia ha usato la mano pesante per reprimere le proteste, arrivando anche a sparare sulla folla.
Il principale motivo di scontro sembrano essere proprio le misure prese da Abiy da quando è salito al potere nel 2018. Se da una parte il premier ha lavorato per favorire l’unità nazionale, dall’altra questo ha dato adito a rivendicazioni etniche e territoriali affinché tutte le minoranze abbiano lo stesso accesso a risorse, terra e potere politico.
L’eredità politica sulle spalle di Abiy non è semplice: dopo la caduta della dittatura marxista nel 1991, l’Etiopia è stata sempre governata da una coalizione di quattro partiti che va sotto il nome di Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf) e che ha governato il Paese con il pugno di ferro, manipolando anche i risultati delle elezioni nel 2015. Da quando è salito al potere nell’aprile 2018 Abiy ha dato avvio a un’imponente operazione di apertura politica. Non solo ha messo fine al conflitto con l’Eritrea, ma ha anche liberato 60mila prigionieri politici, tra cui molti giornalisti, e ha revocato la messa al bando di gruppi d’opposizione precedentemente etichettati come organizzazioni terroristiche. In più per le elezioni del 2020 ha scelto come capo della commissione elettorale Birtukan Mideksa, che è leader di un partito dell’opposizione.
Jawar lo attacca, però, sbandierando il pericolo di una nuova svolta autoritaria: «Ha mostrato i primi segni di un atteggiamento dittatoriale, cercando di intimidire le persone, compresi i suoi alleati più vicini che lo hanno aiutato a essere eletto, solo perché a volte sono in disaccordo con alcune delle sue politiche», ha dichiarato. Di certo restano le preoccupazioni rispetto alle tensioni etniche, in un Paese in cui gli oromo continuano a sentirsi marginalizzati nonostante Abiy stesso (come Jawar) faccia parte di questa etnia. Nell’ultimo anno le tensioni tra i vari gruppi (circa 80) sono aumentate: lo stesso presidente è sfuggito a un attentato nei suoi confronti un paio di mesi dopo la sua ascesa al potere. Successivamente a settembre 2018 nella capitale si sono verificati degli scontri per il ritorno di alcuni leader ribelli ed esiliati dell’Oromo Liberation Front (OLF), mentre a giugno 2019, nello stato di Amhara il governo ha dovuto fronteggiare un tentato golpe.
L’Etiopia ha ottenuto alcuni dei maggiori successi economici di tutto il continente africano superando il Kenya come prima economia dell’Africa orientale, ma restano ancora tanti gli interrogativi aperti. Il 3 novembre anche Papa Francesco ha lanciato un appello per la pacificazione del Paese, dopo che a gennaio il pontefice aveva incontrato Abiy in Vaticano.
Da parte sua il cardinale Abeba Berhaneyesus Souraphiel, arcieparca di Addis Abeba, in una recente intervista a Vatican Insider raccontava che nel Paese non ci sono più scontri e che la situazione è ritornata alla calma. Esprimendo fiducia nel premier che finora «ha dimostrato di essere un uomo di pace» ha anche aggiunto: «Nel Paese ci sono stati molti conflitti in molti luoghi, che hanno causato la fuga di migliaia di cittadini, espropri e anche uccisioni, purtroppo. Quando si innescano enormi riforme è inevitabile che si scatenino, specie all’inizio, malcontenti in parti della popolazione. Ma sfruttare questi rancori soffiando sul fuoco dei principi etnici o religiosi come fanno alcuni politici o agitatori, è profondamente sbagliato. La gente, però, ha capito che le tensioni non sono realmente né etniche né religiose, ma frutto del mero interesse».