Una giovane operaia di una fabbrica tessile a Dacca si è battuta per avere gli straordinari pagati e ha poi fondato un sindacato per occuparsi dei diritti delle colleghe. La storia di Daliya Akter è diventata un film dal titolo “Made in Bangladesh” che è uscito il mese scorso in Francia.
Di finire sullo schermo di un film presentato al Toronto International Film Festival e da un mese nelle sale francesi di certo non lo immaginava Daliya Akter. Questa ragazza di 25 anni, dopo tutto, non sembra avere il curriculum adatto per diventare una diva del cinema. Scappata dalla famiglia a soli 12 anni per non sposare un cugino tre volte più vecchio di lei, Daliya ha lasciato il villaggio natale vicino a Barisal (sul delta del Gange) ed è arrivata a Dacca dove ha trovato lavoro prima come domestica e poi come operaia in una delle tante fabbriche tessili della capitale.
È proprio qui che la sua parabola umile lavoratrice inizia ad assumere i contorni di una storia da film subito intercettata dalla regista Rubaiyat Hossain che ha trasformata Daliya in Shimu, il personaggio principale del lungometraggio “Made in Bangladesh”.
La sceneggiatura racconta un Paese con oltre 4.500 fabbriche tessili che valgono 30 miliardi di dollari l’anno e che producono abbigliamento da esportazione per grandi marchi come H&M, Zara, Walmart, Kappa, Tommy Hilfiger e Calvin Klein. Queste industrie danno lavoro a quattro milioni di persone di cui la maggioranza sono donne. Daliya diventa una di loro e per sei anni si sottopone alle dure condizioni imposte dalle fabbriche. Ogni giorno la ragazza è sulla linea di produzione per uno stipendio equivalente a 80 euro mensili. Quando si accorge che le ferie non vengono pagate e che gli straordinari rimangono regolarmente inevasi, però, Daliya fa pressioni al datore di lavoro, contatta un’associazione, studia i diritti dei lavoratori e infine apre una sezione sindacale nella fabbrica con cui ottiene sia un bonus annuale sia il congedo di maternità.
Oggi come Dalaya sono in tanti a protestare in Bangladesh per condizioni lavorative più dignitose. Oltre a una controversa misura sul salario minimo, però, i lavoratori nell’ultimo anno non hanno ottenuto granché: anzi, secondo i dati ufficiali (cui mancano quelli relativi alle piccole imprese) sono 30mila gli operai licenziati nel 2019. La guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina uniti a una precaria congiuntura economica a livello globale sembra aver infierito sul settore. Inoltre, dopo il crollo nel 2013 del Rana Plaza a Savar (la fabbrica tessile sotto la quale persero la vita 1300 lavoratori) le industrie del Paese sono osservate speciali a livello internazionale e dunque l’attività sindacale – che minaccia di portare alla luce ulteriori problemi nell’ambito del diritto del lavoro – viene in ogni modo scoraggiata.
La stessa Daliya, per esempio, è stata ritenuta pericolosa e licenziata. Ora spera di trovare lavoro in un’organizzazione non governativa specializzata nei diritti delle donne. «Sono orgogliosa di questo film – ha detto Daliya che durante le riprese ha persino insegnato agli attori a usare le macchine da cucire – perché fa parte della mia vita. Grazie a questo lavoro sono riuscita a raggiungere le persone».