La combinazione tra lo sfruttamento intensivo delle acque e la scarsità di piogge monsoniche sta portando conseguenze devastanti intorno al grande fiume del Sud-Est asiatico. Sono 850 le specie ittiche a rischio mentre l’aumento della salinità nell’area del delta minacciale le immense coltivazioni di riso
La stagione invernale, tradizionalmente quella secca nel Sud-Est asiatico continentale, evidenzia e aggrava la crisi del maggiore fiume della regione e 12° per lunghezza al mondo: il Mekong. L’imponente corso d’acqua, il cui corso di 4.350 chilometri tocca sei Paesi dalle sorgenti sull’altopiano tibetano all’immenso delta vietnamita, è malato e le cure – in sé difficili da individuare e da applicare nel contesto dei cambiamenti climatici – sono vanificate dall’accentuato sfruttamento delle sue acque e delle suo rive. Mettendo a repentaglio il delicato equilibrio ecologico e le attività umane e economiche di 70 milioni di individui che del suo corso ancora dipendono per la sopravvivenza.
La frenesia con cui i Paesi rivieraschi, prima tra tutti la Repubblica popolare cinese, continuano a progettare e costruire dighe sul corso alto e medio, come pure le iniziative industriali e di sviluppo edilizio, riducono consistentemente il suo flusso, con un abbassamento delle acque e un incremento dei depositi che ne riducono il letto con conseguenze pesanti e da tempo rilevabili su disponibilità ittica e produzioni agricole nelle aree irrigue. Preparando una situazione che esperti anti-terrorismo sono arrivati ad assimilare a quella di situazioni di conflitto e del collasso del sistema statale.
Pressioni politiche – soprattutto del colosso cinese su Paesi fortemente dipendenti dai suoi commerci, aiuti e investimenti – corruzione endemica e avidità degli imprenditori, sistemi politici illiberali, hanno impedito alle voci di ambientalisti, economisti, sociologi e rappresentanze delle comunità rivierasche di farsi udire sopra il rumore delle ruspe e delle macchine che continuamente sono all’opera per cementificare le sponde, prelevare terreno ricco di limo e dare forma alle 123 dighe previste sul corso principale del Mekong e sui sui affluenti. O quelle in via di costruzione che si aggiungeranno alle 11 già presenti sul fiume, con lo scopo primario di alimentare di elettricità l’inesauribile sete energetica di Cina e Thailandia.
Tuttavia, la scarsità di piogge monsoniche, conseguenza della persistenza di El Niño, ha portato la disponibilità idrica media lungo il fiume al livello minimo da cent’anni, influendo sulla moltiplicazione e migrazione dei pesci, sull’aridità crescente dei campi e sulla salinità in accentuazione nel delta, area risicola tra le maggiori dell’Asia.
Immensi i danni per la fauna ittica, con 850 specie che oggi rischiamo l’estinzione, inclusi il delfino dell’Irawaddy e il pesce-gatto gigante, mentre le informazioni sui danni per le popolazioni sono facilmente manipolabili in Stati dominati da partiti unici di ispirazione marxista (Repubblica popolare cinese, Laos, Cambogia) o da regimi controllati dai militari (Myanmar e Thailandia) ma tutti sotto l’influenza cinese. Un’eccezione il Vietnam, la cui ricchezza dovuta all’agricoltura è per metà fornita dalle aree irrigue attorno al Mekong, ma dove – a fronte della resistenza del suo governo alle pressioni cinesi – va incrementandosi la povertà rurale, con molte famiglie nel delta ormai ridotte alla pura sussistenza.
E se la realtà è difficile, le prospettive sono preoccupanti. I tributari sono via via chiusi da dighe che impediscono la navigazione fino a pochi anni fa possibile lungo tutto il loro corso, come nel caso del Namu. Due dei nove bracci deltizi del Mekong che sfociano, dopo l’incontro con diversi affluenti, nel Mar cinese meridionale sono ora chiusi e gli esperti indicano che l’intero delta potrebbe non esistere più alla fine di questo secolo. Prima di allora, però, l’allarme è già stato lanciato: milioni di persone potranno essere costrette ad andarsene cacciate dalla fame per la mancanza di risorse, mettendo a rischio anche i regimi che li controllano e continuano a vedere nel Mekong una fonte inesauribile di benefici. Da qui, il tentativo in corso delle organizzazioni ambientaliste di portare i governi locali davanti alla Corte penale internazionale dell’Aia.