Padre Alessandro Maraschi, arrivato nel Paese da pochi mesi, racconta un contesto segnato da violenza e disuguaglianze, ma ricco anche di speranza e di bellezza. «Basta cercarle», dice
Da alcuni mesi mi trovo a Città del Messico, perciò provo a gettare un lunghissimo ponte sull’oceano Atlantico per far arrivare in Europa qualche racconto centroamericano. Abito nella zona sud dell’immensa capitale messicana, a un quarto d’ora dallo stadio Azteca, quello del record del mondo di Mennea, quello del 4-3 contro la Germania nella semifinale dei mondiali del 1970. Vivo con i missionari di Guadalupe, un istituto messicano “fratello” del Pime. Qui hanno sede il seminario, dove non mancano zelanti sacerdoti in formazione, e un’università (sempre gestita dai missionari), con annesso campus. L’ambiente è giovane e accogliente, non manca nulla. Le mie giornate si riempiono di parole nuove, di verbi da coniugare e frasi balbettate che si sciolgono sempre più, man mano che passano i giorni. Dalla finestra della mia stanza, se alzo lo sguardo vedo le “colline” di oltre duemila metri che cingono la città e durante la notte si accendono di migliaia di luci delle piccole case. Squadrate, una vicina all’altra, umili, ma dignitose. Città del Messico è costituita da una distesa senza soluzione di continuità di zone abitate, differenti l’una dall’altra, mescolate e al tempo stesso distinte, in base alle disponibilità economiche di chi le abita. Ci sono zone belle da vedere, in cui perdersi è un piacere; e altre in cui la bellezza non la si trova facilmente di fronte a sé con il primo sguardo. Bisogna cercarla con un po’ più di sforzo. Un mondo tutto da scoprire con occhi grandi e curiosi. Molto spesso nei fine settimana prendo una linea di metrobus, faccio una cinquantina di fermate e in un paio di ore attraverso la città fino a una di queste zone collinari, a nord, dove comincia Ecatepec. In questo sobborgo popolare alle porte di Città del Messico vivono cinque milioni di persone. È una zona considerata ad alto rischio sicurezza. Tengo sempre gli occhi aperti, ma col tempo ho ormai maturato una spontanea simpatia per le periferie, spesso dipinte evidenziandone solo i tratti più foschi.
A Ecatepec vivono padre Damiano e padre Deodato, vicini alla gente della cappella di San Giuseppe, situata a pochi passi dalla ferrovia dove, lenta e cigolante, passa “la bestia”, il famigerato treno merci che porta verso nord ogni sorta di mercanzia… e spesso persone cariche di qualche borsa e molti sogni di un futuro migliore.
La cappella di San Giuseppe ha pareti rosa shocking e l’immancabile immagine della Virgen de Guadalupe giganteggia a lato dell’altare, accanto alla croce. La comunità è formata per lo più da famiglie provenienti da altre zone del Paese per cercare lavoro: ci sono molti indigeni, ma anche gente nata e cresciuta a Ecatepec, quando ancora era molto, ma molto più piccola.
Ogni domenica la parrocchia si riempie di una bella mescolanza colorata di persone e il coro ricco di chitarre, mandolini, tamburelli e fisarmoniche, con i suoi canti, crea una bella atmosfera di festa.
Uno degli incontri più piacevoli avvenuto finora è stato proprio con il gruppo di animatori della cappella. Sono donne e uomini di età diverse che ogni giorno si prendono cura della chiesa, preparano la liturgia e visitano le famiglie. Li conosco ancora poco, ma il loro stile accogliente, capace di costruire buone relazioni, mi ha subito colpito. In una zona di molto cemento e pochi fiori vedo nitidamente spuntare i segni del passaggio del Signore, con il suo grande strascico di speranza. Reti solidali che aprono strade in una realtà che rimane fragile, molto spesso segnata da una violenza tagliente che colpisce alla cieca, senza motivo. Non ho ancora strumenti rodati per poter giudicare, tuttavia si avverte palpabile l’insicurezza. Sembra una coltre fluida che avvolge ogni cosa. Come in molte situazioni dove il male riesce a mettere radici, si accompagna a un fatalismo nella gente e cerca di rubare la possibilità di vedere un altro futuro. Ho preso l’abitudine di leggere i giornali locali e, nel mentre, di annotare le parole che non conosco su un quaderno. Riguardando la lista mi sono accorto che molti vocaboli parlano di violenza. È un bollettino quotidiano che genera una grande fragilità. Spero con tutto il cuore di stare in questa missione abbastanza a lungo da poter vedere altre stagioni, più distese.
Accanto a queste ferite aperte faccio esperienza di una cultura ricchissima, di un popolo ospitale a cui piacciono la festa e la convivialità e mi rendo conto che le cose che lo accomunano con l’amata Italia non si limitano ai colori della bandiera. Se il Signore me ne darà la grazia non vedo l’ora di lavorare a tempo pieno nella custodia e nella coltivazione della bellezza che è presente qui da sempre. Questi sono ancora i primi passi traballanti. Mi guardo indietro e vedo una moltitudine di volti che mi accompagnano. Con allegria posso dire che se guardo avanti a me già compaiono molti volti nuovi, altrettanto sorridenti. Se aguzzo un po’ la vista riconosco, in tutti questi sguardi, il tratto comune degli occhi del Padre e non posso che rallargarmi anch’io in un ampio sorriso fiducioso.