La Corte suprema indiana ha stabilito incentivi per le famiglie che mettono al mondo una bimba. Ma due missionarie raccontano come la predilezione per il figlio maschio resti la più grande piaga del Paese
Se pure da qualche parte si desidera la nascita di una femmina, qui desideriamo un maschio». Inizia così una preghiera dell’Atharvaveda, quarto libro dei Veda, testi sacri indù recitati da milioni di donne indiane ogni giorno.
Diversa è invece la voce che oggi si leva dal più alto tribunale del Paese: la Corte suprema dell’India ha emesso lo scorso novembre un’ingiunzione che prevede incentivi speciali per le famiglie che mettono al mondo e crescono una bambina.
Da una parte c’è il desiderio delle future madri di assecondare la millenaria e crudele tradizione patriarcale, dall’altra la legge che cerca di arginare con la sua autorità questa selezione di massa. Nel mezzo restano numeri che danno i brividi: circa 50 milioni le donne che nell’arco di tre generazioni mancano all’appello.
Una cifra enorme che calcola in modo approssimativo – e secondo molti per difetto – quante donne siano state uccise per l’unica ragione di essere tali. Cinquanta milioni di bambine, ragazze, mogli e vedove sterminate da un genocidio silenzioso ma continuo. Maltrattamenti e abusi infantili, omicidi per dote, uccisioni d’onore, mortalità materna a causa di aborti ripetuti e forzati, stupri non sono che il seguito di una catena dell’orrore che inizia fin dal sorgere della vita, attraverso l’aborto selettivo e il feticidio femminile.
A nulla è valsa la legge varata dal governo indiano che dal 1994 rende illegale l’uso di particolari esami pre-natali per determinare il sesso del feto. Ecografie e accertamenti preliminari sono alla portata anche degli strati più bassi della popolazione e così milioni di bambine, la cui unica colpa è appartenere al sesso “sbagliato”, sono uccise ancor prima di venire alla luce.
Il feticidio, invece, rivela tutta la sua drammatica realtà nove mesi dopo: «Ho visto nascere tanti bebè, un evento comune a qualsiasi ospedale del mondo. Ma il mio ricordo si lega a una bambina in particolare, nata e non accettata dalla propria famiglia senza troppe storie. Dopo poche ore, nel silenzio e nell’indifferenza più totale, ho trovato il suo cadavere nella culla. Una figlia d’India senza nome e senza storia». Suor Lorenza Calcagni, missionaria dell’Immacolata da oltre quarantacinque anni in India, è la Cinna dottor, “piccolo dottore” in lingua telegu, dello Stato dell’Andhra Pradesh. Ha lavorato in diversi centri dedicandosi ogni giorno alle piaghe più diffuse ed evidenti del Paese: lebbra, malnutrizione, malaria, povertà, analfabetismo, senza dimenticare però la più insidiosa e violenta: la discriminazione femminile.
«La nascita di una bimba può trasformarsi in una vera tragedia per molte famiglie indiane: la frase “è una femmina”, pronunciata dall’ostetrica, può ancora suonare come una sentenza di morte. Allevare una bambina è percepito come uno spreco di tempo e di denaro. Le donne non garantiscono la continuazione del nome della famiglia. Non contribuiscono al suo sostegno economico, anzi dissipano le finanze paterne a causa della lauta dote che devono fornire alla famiglia del marito una volta sposate. Sono sottoposte alla tutela e al controllo paterno prima e del marito o dei figli poi. Essere donna, qui, è difficile».
Da donna, suor Lorenza, come tante altre missionarie dell’Immacolata che operano nel Paese, si scontra ogni giorno con il fenomeno delle missing girls, cioè le bambine “mancanti” o “sparite”: «Ho accompagnato durante la gravidanza una giovane. Dopo aver partorito una bella bambina, con immenso dolore l’ha uccisa. Alla mia richiesta di spiegazioni, questa mamma mi ha detto: “Suor Lorenza, non volevo che la mia bimba soffrisse come ho sofferto e sto soffrendo io ogni giorno della mia vita”…».
Non sorprende che, contro l’assurda pratica che impedisce il diritto di nascere proprio a chi è in grado di dare la vita, ora intervenga anche la Corte suprema indiana. Il tribunale si è pronunciato in merito a una causa di pubblico interesse aperta nel 2006 dalla Voluntary Health Association, dopo il ritrovamento di quindici feti di bambine in un pozzo di una clinica privata nello Stato del Punjab.
La sentenza indica come efficace via per combattere questi crimini l’erogazione di sovvenzioni speciali alle famiglie che mettono al mondo e accudiscono una bambina. Il provvedimento si profila come una risposta concreta alla vistosa distorsione della sex ratio (il rapporto tra numero di nascite femminili e maschili) che si registra nel Paese: dai dati dell’ultimo censimento della popolazione indiana avvenuto nel 2011 è emerso infatti che nella fascia d’età 0-6 anni ci sono nel Paese solo 914 bambine per ogni 1.000 maschietti, il rapporto più basso mai registrato dall’indipendenza nel 1947. In cifre assolute, il deficit di femminucce rispetto ai bambini raggiunge oggi in questa fascia di età i 7,1 milioni. Nel censimento 2001 questo divario era di 6 milioni e in quello del 1991 di 4,2 milioni. «La popolazione – hanno sottolineato i giudici – deve sapere che lo Stato si prenderà cura anche delle bambine. Una bambina ha diritto a vivere tanto quanto un figlio maschio e gli Stati devono fare ogni cosa è in loro potere per diffondere questa consapevolezza tra le famiglie». «Buttala via!». Quante volte suor Bertilla Capra ha sentito pronunciare questa richiesta da genitori che accorrevano al Vimala Dermatological Centre in uno degli slum più degradati di Mumbai, con fagotti rosa tra le mani. «Io naturalmente mi rifiuto, e accolgo tutti». Risponde così suor Bertilla, bergamasca di nascita ma indiana da ormai quarantacinque anni.
Arrivata a Mumbai nel 1981 è diventata direttrice del Centro, ma soprattutto cuore e anima dell’intero ospedale.
«Da noi vengono ricoverati pazienti con vari stadi di lebbra», spiega la religiosa. «Chi ha febbri forti e acute; chi ha ulcere aperte; chi riporta già deformità permanenti; chi è all’inizio e presenta solo macchie della pelle. Tutti hanno bisogno di essere curati, medicati e assistiti. Con il passare del tempo però ci siamo rese conto che anche le famiglie dei malati necessitavano di un supporto, soprattutto se si trattava di bambine rimaste sole». Così nel 1994 è nato il boarding, un collegio femminile che ospita le figlie dei pazienti dell’ospedale. «Un tempo si tendeva a separare i bambini sani dai genitori malati – spiega suor Bertilla -, invece noi preferiamo tenerli insieme. Si mantiene un legame, si costruisce una rapporto, si cresce vicini». Le ragazze, quasi sempre accolte nel boarding in età pre-scolare, restano fino al completamento degli studi dell’obbligo e poi vengono seguite nella fase di inserimento nel mondo esterno: matrimonio, lavoro o prosecuzione degli studi superiori e universitari.
«Oggi, una delle nostre ragazze sta portando a termine il corso di laurea in ingegneria. E pensare che era considerata una spesa a fondo perduto! Noi ci abbiamo investito… e abbiamo avuto ragione!». MM