Due norme anti-terrorismo approvate in Camerun e Kenya rischiano di tradursi in violazioni alle libertà fondamentali. Ovvero, quando il diritto viola i diritti. E non sono gli unici casi…
I miei colleghi africani rendono omaggio ai morti francesi, ma dei morti di casa nostra se ne fregano. Siete la vergogna dell’Africa!». È il tweet non proprio diplomatico che il presidente del Camerun Paul Biya ha diffuso in occasione della marcia dei capi di Stato a Parigi, dopo la strage di Charlie Hebdo e del negozio kosher. Non aveva tutti i torti, Paul Biya, che pure non è mai stato un campione di democrazia e libertà. Certo, è stato piuttosto disarmante vedere sfilare a Parigi personaggi come Ali Bongo, discendente di una dinastia che governa il Gabon dal 1967, dove i giornalisti vengono minacciati di morte (l’ultimo è Jonas Moulenda costretto a rifugiarsi prima in Camerun e poi in Francia), o Boni Yayi del Benin, che ha decretato un giorno di lutto nazionale nel suo Paese e intanto ha fatto causa a due giornali per offesa al capo dello Stato. Va detto che Bongo e Yayi erano in buona e ampia compagnia di personaggi (non solo africani), che difendono liberté, égalité e fraternité sul suolo francese e impongono regimi liberticidi, corrotti e segnati da ingiustizie e diseguaglianze a casa loro.
E proprio Paul Biya, che striglia i suoi colleghi – ed è oggettivamente sempre più minacciato sul suo territorio dai miliziani di Boko Haram, – ha pensato bene di combattere il terrorismo con una legge approvata lo scorso 4 dicembre piena di ambiguità, particolarmente restrittiva delle libertà dei suoi concittadini e che si presta a possibili gravi violazioni dei diritti umani. Non è il solo. Quasi negli stessi giorni in cui il Parlamento camerunese approvava unanimemente – ma con le proteste delle opposizioni, della società civile e dei media indipendenti – la nuova legge anti-terrorismo, nel Parlamento del Kenya si arrivava addirittura alle mani durante la discussione di alcuni controversi emendamenti del Security Law Bill 2014.
Resasi necessaria, secondo i suoi sostenitori, per contrastare i fondamentalisti somali di Al Shabaab, che hanno ripetutamente colpito anche il territorio keniano, la nuova legge sarebbe, secondo i detrattori, uno strumento che indebolisce gravemente il rispetto delle libertà fondamentali. Un sospetto in qualche modo rafforzato dalla decisione delle autorità di sciogliere oltre 500 ong, con l’accusa che alcune di esse erano affiliate o finanziate dagli Shabaab.
Il provvedimento ha suscitato qualche perplessità anche nelle ambasciate occidentali presenti a Nairobi che, in un comunicato congiunto, hanno chiesto che la nuova legislazione «pur rafforzando la sicurezza, rispetti i diritti dell’uomo e gli impegni internazionali» assunti dal Kenya.
La Corte suprema, dal canto suo, ha sospeso a gennaio, in seguito al ricorso delle opposizioni, diversi punti della legge. Secondo il giudice George Odunga, la lotta al terrorismo non giustifica il fatto di calpestare le libertà acquisite. Le sue parole sono state inequivocabili: «I keniani vogliono rompere con il passato. Il Paese non può retrocedere e rivivere i giorni foschi che ha conosciuto».
È il dilemma anche di molte democrazie occidentali, dove si sta giocando una partita molto delicata tra l’esigenza di sicurezza e la garanzia del rispetto delle libertà fondamentali e della privacy.
Ma, visto dall’Africa, è soprattutto uno dei grandi paradossi di questa complessa, confusa e drammatica epopea di sangue che sta funestando tutta la regione del Sahel e del Corno d’Africa, dove gli sforzi di prevenzione e contrasto del terrorismo sul terreno non paiono all’altezza della situazione e allora si usano le maniere forti sul versante legislativo.
La legge camerunese, ad esempio, presenta una serie di ambiguità, che potrebbero essere mal interpretate. Le nozioni stesse di “atto terroristico” o di “apologia di atto terroristico” sono alquanto vaghe e potrebbero contribuire a criminalizzare forme legittime di libertà fondamentali, come il diritto di libera associazione e di espressione. L’organizzazione di manifestazioni di protesta, ad esempio, potrebbe facilmente essere assimilata a un atto terroristico in quanto potrebbe «perturbare il funzionamento normale dei servizi pubblici […] o creare un’insurrezione generale nel Paese». L’opposizione politica vi scorge un tentativo neanche troppo camuffato di proibire qualsiasi forma di sollevazione popolare o di rivolta sociale simili a quelle che hanno costretto l’ex presidente Blaise Compaoré a lasciare i vertici dello Stato in Burkina Faso. I giornalisti dei media indipendenti vi vedono invece un tentativo di mettere loro un bavaglio. Mentre la società civile teme, da un lato, che si metta a tacere o si costringa all’esilio l’opposizione intellettuale e, dall’altro, che si creino forme di ritorsione o minaccia nei confronti dei cittadini comuni. In effetti, queste norme, interpretate senza un filo di buon senso, hanno portato già a conseguenze quanto meno assurde. Arrivando a criminalizzare, ad esempio, anche le sacre regole dell’accoglienza tradizionale. È successo, infatti, che nel Nord del Paese, nelle regioni interessate dalle incursioni di Boko Haram, alcuni capi-villaggio venissero arrestati per complicità perché avevano riservato i tradizionali gesti di ospitalità a “stranieri” di passaggio, che poi si sono rivelati essere criminali o potenziali tali. L’esperienza degli ultimi 12/13 anni non lascia ben sperare in un’applicazione equilibrata di tali leggi. Molti Paesi dell’Africa subsahariana, infatti, avevano introdotto leggi anti-terrorismo già all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, in maggioranza tra il 2002 e il 2003. Tutte presentavano le stesse criticità in termini di definizione dei reati e di introduzione di norme estremamente repressive, in contraddizione con i trattati internazionali e le convenzioni in materia di diritti umani.
In zimbabwe, ad esempio, la legge del 3 agosto del 2007 definisce “organizzazione terroristica” «qualsiasi associazione di persone costituita con l’intenzione di rovesciare o prendere il potere di governo di uno Stato». In Sudafrica, dove pure c’è una delle Costituzioni più avanzate al mondo, l’Istituto per la libertà di espressione di Johannesburg ha pubblicato un rapporto relativo alla legge anti-terrorismo approvata nel 2005, parlandone come di un «mostro in gestazione». «Lo Stato – vi si legge – ha colto l’occasione offerta dagli attentati dell’11 settembre per introdurre di nuovo nel Paese una simile legislazione, difettosa alla base e poco chiara nella logica delle sue motivazioni». Tra le altre cose, la legge definiva il terrorismo come «un atto illegale suscettibile di intimidire il pubblico o un settore del pubblico».
Queste ambiguità di linguaggio, e le relative interpretazioni, hanno permesso in molte parti dell’Africa di procedere in maniera indiscriminata ad arresti e detenzioni arbitrari, atti di tortura, processi non equi e gravi violazioni del diritto alla libertà di espressione e informazione.
«Occorre rispondere all’illegalità con la legalità – è il monito della Federazione internazionale delle Leghe dei diritti dell’uomo – e mostrare che il diritto vince sulla violenza arbitraria».
Le nuove legislazioni appena approvate in Kenya e Camerun (quest’ultima sulla scia di un analogo provvedimento in Francia), lasciano temere che si vada verso un nuovo giro di vite indiscriminato e si lasci il campo anche a rese dei conti e vendette.
Certo, la posta in gioco è grande, sia sul fronte della lotta al terrorismo che su quello della salvaguardia delle libertà e dei diritti. Significa, da un lato, non far retrocedere l’Africa – come giustamente faceva notare il giudice keniano – verso un passato oscurantista e anti-democratico, cancellando i grandi passi avanti fatti in termini di riconoscimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali e anche verso l’abolizione o la sospensione della pena di morte (che invece le nuove legislazioni reintroducono). Dall’altro lato, però, si tratta di contrastare più efficacemente un fenomeno che ha assunto negli anni dimensioni sempre più ampie e fuori controllo.
Oramai i terroristi di Boko Haram, che si sono rafforzati enormemente in termini di armamenti, ma anche di organizzazione e strategie, operano su scala transfrontaliera, seminando terrore e morte non solo nelle regioni settentrionali della Nigeria, ma anche nell’Estremo Nord del Camerun, in Ciad e Niger. Senza che governanti e forze dell’ordine – nigeriani, innanzitutto, ma anche dei Paesi limitrofi – riescano a contrastarli efficacemente.
Sul fronte del Corno d’Africa, invece, l’ultimo paradosso riguarda le ripercussioni negative che le leggi anti-terrorismo dei Paesi occidentali hanno sui Paesi che il terrorismo ce l’hanno in casa. E che rischiano di essere penalizzati non una (dagli attacchi terroristici, appunto), non due (per l’introduzione di leggi liberticide), ma ben tre volte: per le limitazioni degli interventi umanitari. È il caso della Somalia, ad esempio, dove la legge anti-terrorismo degli Stati Uniti sta provocando l’effetto perverso di impedire a molte organizzazioni di intervenire sul posto.
Infatti, per poter operare nel Paese senza andare contro tale legge, molte ong e agenzie internazionali si sono dovute concentrare a Mogadiscio, con il risultato di “drogare” il mercato degli aiuti umanitari nella capitale, con conseguenti furti, creazione di finti campi profughi, spreco di risorse, innalzamento dei costi della distribuzione nelle zone più colpite sia dai terroristi che dalle carestie o, dulcis in fundo, con gli aiuti che finiscono direttamente nei centri commerciali della città ad uso e consumo di chi può comprarli e non di chi ne ha veramente bisogno.
Forse ha ragione Fréderic Boungou, direttore del principale giornale d’opposizione camerunese, Le Messager, che ha definito la legge anti-terrorismo «una medicina che uccide». O, per lo meno, un rimedio che non fa poi così bene. MM