La denuncia del leader della comunità di Paraisopolis: «Quello che sta succedendo in Brasile sembra un piano disegnato a tavolino: lasciare che i poveri muoiano. Questo genera ulteriore disuguaglianza e il rischio di una guerra civile disastrosa». Una ferita che tocca da vicino anche i quartieri di San Paolo dove opera il Pime
Mentre il presidente Jair Bolsonaro minimizza, il coronavirus continua a diffondersi in tutto il Brasile. Cresce il numero dei contagiati e si registrano nuove morti. Una delle città più colpite è San Paolo, la metropoli più ricca e più grande di tutto il Continente sudamericano. Qui il prefetto ha dichiarato lo stato di emergenza, prevedendo la chiusura delle scuole come anche di strutture che operano nel comparto sociale, arrivando persino a prevedere la chiusura, fino al 30 aprile, di centri commerciali e palestre.
TRA GLI ULTIMI. Nelle ultime ore però è stato lanciato un nuovo allarme. È quello del leader della comunità dei cittadini di Paraisopolis, l’enorme favela paulistana che sorge nel cuore del ricco bairro di Morumbi, una delle baraccopoli più grandi di tutto il Brasile come di tutto il mondo (con i suoi 100mila abitanti, secondo le stime più o meno ufficiali). Intervistato dalla Bbc Brasil, Gilson Rodrigues, presidente della União de Moradores e Comerciantes de Paraisópolis, ha raccontato come sarà difficile, se non impossibile, fermare l’avanzata del contagio nelle favelas del Paese dove la densità abitativa è altissima, dove mancano i servizi di base (spesso anche l’acqua per lavarsi) e dove il livello culturale e sociale è talmente basso che per alcuni è persino difficile capire che cosa stia accadendo. «Senza un piano specifico del Governo, dedicato agli oltre 13 milioni di abitanti delle baraccopoli di tutto il Paese, i più poveri correrranno il rischio maggiore e passeranno per i ‘cattivi’ di questa pandemia», ha detto alla Bcc il leader della comunità di Paraisopolis.
LE VERE VITTIME. «Come potranno isolarsi gli anziani se vivono in case con 10 persone in due stanze? L’isolamento è una cosa per stranieri, per ricchi. I poveri non hanno le condizioni concrete per farlo. Purtroppo nelle favelas ci saranno moltissime perdite», aggiunge. Una “strage”; senza paura di usare espressioni forti. «Purtroppo nelle favelas le persone non sono ancora del tutto coscienti del problema, della gravità della situazione», spiega ancora Gilson Rodriguez. «Fare la quarantena in favela, isolarsi, è una pratica impossibile. Dove le persone possono isolarsi? In quali condizioni? Questo vale a Paraisopolis come in tutte le altre comunità del Brasile. In breve ci sarà un numero altissimo di contagi nelle favela che diventeranno le grandi vittime di questo virus».
LA CRISI. Paraisopolis è sorta dentro i confini di Morumbi, il quartiere più ricco e residenziale di San Paolo. «Nessuno sta pensando al fatto che nelle grandi ville di Morumbi lavorano tutte le persone che vivono a Paraisopolis. E che quindi entrando in contatto con quelli che hanno viaggiato per il mondo, per questioni di lavoro, e sono entrati forse in contatto col virus. Molte di queste persone sono state licenziate, gli è stato detto di stare a casa, che saranno ricontattate dopo che sarà cessata l’emergenza. E cosa succederà? Che le persone che già erano senza impiego non avranno da mangiare; i bambini che mangiavano solo a scuola, ora che gli istituti sono chiusi, faranno letteralmente la fame. Perché se si chiude tutto, la gente della favela come vive? Come mangia? Questa calamità si porterà dietro una lunga coda di problemi sociali, con il rischio che il Paese passi per la maggior crisi della sua storia», spiega Gilson.
I POVERI. E ancora: «Com’è che si può dire alle persone di igienizzarsi e lavarsi? Devono usare l’alcol gel, ma qui non si guadagna abbastanza per poterselo permettere». In molte baraccopoli manca persino l’acqua: l’allacciamento alla rete idrica è uno dei servizi di base che moltissime favela non si possono permettere. E quindi anche la semplice azione di “lavarsi le mani” diventa praticamente e concretamente impossibile. «Quello che sta succedendo in Brasile sembra un piano disegnato a tavolino: lasciare che i poveri muoiano. Questo genera ulteriore disuguaglianza e il rischio di una guerra civile disastrosa».
IN PRIMA LINEA. I padri del Pime che prestano servizio nella grande San Paolo conoscono bene questa situazione. Le tre parrocchie del Pime che si trovano nella periferia Sud della città sono state costruite all’interno di favela o di quartieri estremamente poveri. In alcuni casi sono proprio le parrocchie del Pime che lavorano “in prima linea” nelle baraccopoli, come succede nel caso della parrocchia Nossa Senhora dos Anjos, che “gestisce” una cappella all’interno di un insediamento che si è recentemente creato e nel quale vivono circa 5mila persone (tra cui 1000 bambini sotto i 12 anni) in condizione di estrema povertà, senza servizi di base, senza assistenza, senza la possibilità di pensare al proprio futuro, schiacciati sui problemi del quotidiano. Un altro caso specifico è quello della Ong Conosco, legata al Pime per la sua storia e per i progetti Sad (sostegno a distanza). I nuclei della Conosco sono stati chiusi su ordine della Prefettura di San Paolo, così come le scuole: «I nostri servizi ospitavano bambini di aree talmente povere che il pranzo e la merenda offerta da noi era l’unico pasto giornaliero, insieme a quello della scuola. Ora ci sono centinaia e centinaia di famiglie che sono senza cibo, senza giri di parole», racconta Paula Hinkeldei, che gestisce la Ong. Paula, insieme ad altre associazioni del comparto sociale, hanno fatto richiesta alla Prefettura di prevedere lo stanziamento dei fondi per le refezioni anche con i centri chiusi, in modo da poter prevedere la consegna alle famiglie dei cosiddetti “cestini di base”.
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