Percorsi che trasformano gli immigrati in ciceroni o lezioni di italiano tra le opere esposte: una tavola rotonda al Museo Popoli e Culture del Pime ha raccontato tante storie di integrazione attraverso l’arte
Opere d’arte “adottate” e reinterpretate da cittadini immigrati, teche di reperti antichi che fanno da cornice a lezioni di lingua, migranti trasformati in ciceroni interculturali. Il 31 gennaio il Centro Pime di Milano ha accolto una tavola rotonda su “Il Museo come luogo di relazioni e di apprendimento per i nuovi cittadini”, organizzata dal Museo Popoli e Culture e che ha coinvolto anche il Museo Egizio di Torino e la Fondazione Musei Civici di Venezia, per confrontarsi e aprire il dialogo su uno dei possibili ruoli del museo oggi.
Grazie a un finanziamento di Regione Lombardia, il Museo Popoli e Culture ha infatti potuto realizzare un laboratorio di italiano come lingua seconda rivolto in particolare ad associazioni, cooperative e gruppi informali che si occupano dell’insegnamento dell’italiano a persone arrivate da poco in Italia e con limitate possibilità economiche.
La tavola rotonda è stata l’ultima azione del progetto e ha avuto anche lo scopo di raccontare gli esiti dei primi mesi di attivazione della proposta. Si è trattato di un importante momento di confronto a cui hanno preso parte attivamente anche i partecipanti con molte domande e riflessioni e dal quale siamo usciti tutti arricchiti.
Simona Bodo, ricercatrice e consulente in problematiche di diversità culturale e inclusione sociale nei musei, ha coordinato la tavola rotonda e ha introdotto i lavori riportando un episodio avvenuto pochi giorni prima: «Il 22 gennaio gli Uffizi hanno organizzato una conferenza con Anna Chiara Cimoli sul tema del museo come “incubatore di inclusione sociale”, e al tweet in cui si diffondeva l’appuntamento è arrivata immediatamente una risposta piccata: “No, è un museo. Un museo ha a che fare con la storia e con l’arte, non con la giustizia sociale”. Forse l’autore del tweet ha confuso la natura delle collezioni di un museo (storiche, artistiche, archeologiche o naturalistiche che siano) con il ruolo del museo nella società: “Un’istituzione aperta al pubblico, al servizio della società e del suo sviluppo”, recita ad esempio la definizione “storica” dell’International Council of Museums».
Con questo aneddoto, Simona Bodo ha voluto focalizzare l’attenzione sul lungo percorso autoriflessivo di almeno una parte della comunità museale, che negli ultimi decenni ha sempre più riconosciuto la necessità di rivolgersi a pubblici diversi, di diventare una casa aperta a tutti, non come atto di coraggio, ma come atto dovuto.
Anche al Museo Popoli e Culture è in corso da tempo questo percorso e il laboratorio di italiano “Come si dice?” fa parte di questo processo. L’iniziativa nasce a seguito di una formazione condotta da due operatrici del Centro di ricerca sulla Didattica delle lingue dell’Università Ca’ Foscari di Venezia a cui ha partecipato tutto lo staff del Museo, e si articola in un percorso costruito attorno a una selezione di oggetti esposti accomunati dal tema delle feste. Attraverso questi oggetti e alcune attività specifiche, gli studenti possono consolidare le competenze e le conoscenze linguistiche acquisite in aula e svilupparne di nuove.
In un mese e mezzo circa il Museo è riuscito a coinvolgere oltre trenta gruppi per un totale di oltre 300 persone. A finanziamento concluso, l’obiettivo è inserire la proposta tra le attività permanenti con l’obiettivo di raggiungere altri gruppi, scuole internazionali e studenti universitari.
Alessia Fassone e Hassan Khorzom del Museo Egizio di Torino hanno presentato i primi esiti del laboratorio di italiano come lingua seconda “Imparare l’italiano attraverso l’arte al Museo Egizio”, avviato lo scorso anno scolastico. Gli studenti coinvolti, provenienti da ogni parte del mondo, frequentano un corso presso il Centro per l’istruzione degli adulti Torino 1, con alcune lezioni che si svolgono in museo dove i ragazzi imparano a conoscere la collezione e hanno l’occasione di fare un esercizio linguistico. Ognuno di loro “adotta” un reperto, lo approfondisce e impara a descriverlo. A fine semestre i ragazzi organizzano una visita davanti a docenti, amici e famigliari, condotta sia in italiano sia nella lingua del Paese d’origine. Il laboratorio è parte del programma d’esame di scuola secondaria di primo grado, ma è anche un’occasione di aggregazione, di confronto interculturale e di esperienza di didattica alternativa, oltre che di inclusione di un pubblico che diversamente non accederebbe al museo.
Infine, Cristina Gazzola ha raccontato “Il mio Correr. Sguardi interculturali al museo”, il primo progetto interculturale della Fondazione Musei Civici di Venezia, patrocinato da Icom Italia e sviluppato in collaborazione con il Servizio Pronto intervento sociale, inclusione e mediazione del Comune.
Il progetto, avviato nel 2019 al Museo Correr, ha promosso un processo di dialogo tra persone di diverse culture che risiedono in città, favorendo la loro partecipazione e lo scambio come fattore di coesione sociale e integrazione. Dopo un attento lavoro di formazione svolto nei mesi scorsi, undici “nuovi” cittadini hanno elaborato delle “narrazioni” di opere del Museo, da loro selezionate e reinterpretate con significati e punti di vista inediti. Questi “narratori”, attraverso le proprie storie intrecciate a quelle delle opere selezionate, hanno prodotto un percorso nel museo in chiave interculturale, che mira a condividere con i visitatori nuovi saperi e interpretazioni.
Come ha sottolineato Simona Bodo a conclusione degli interventi, tutti e tre i progetti rispondono alla già citata istanza dell’International Council of Museums sul museo come “un’istituzione aperta al pubblico” e lo pensano come un luogo di relazioni al cui centro sono le persone e le loro storie. Tre casi di buone pratiche che possono essere un utile riferimento per altre realtà intenzionate ad avviare percorsi simili.