La Veglia sarà al pomeriggio, così da finire prima del buio. Deve fare i conti con instabilità e violenza la vita dei cattolici nell’ex colonia italiana. «Siamo pochi, ma non invisibili», dice il vicario mons. Bugeja
Un normale triduo pasquale, con la chiesa colma di fedeli e i riti animati dalle quattro corali parrocchiali. Con un solo accorgimento: «Celebrerò la Veglia di Pasqua alle 16, così la gente avrà il tempo di rientrare a casa prima del buio.
Sa, c’è sempre qualche timore per la sicurezza…».
La precisazione di monsignor George Bugeja lascia intendere subito che, in realtà, c’è ben poco di “normale” nella vita quotidiana dei fedeli di cui è pastore da cinque anni. La chiesetta intonacata di bianco dove tutti possono incontrare il vescovo maltese nel suo saio da frate minore è infatti quella, dedicata a san Francesco, che sorge nel quartiere di Dahra, nel bel mezzo di Tripoli. L’unica, del resto, attiva nella capitale libica dai tempi della “rivoluzione verde” di Gheddafi quando – era il 1969 – il raìs salì al potere con un colpo di Stato all’insegna del nazionalismo socialista e dell’espulsione degli stranieri. I beni della Chiesa furono confiscati, i luoghi di preghiera (39 in città) chiusi, compresa la cattedrale del Sacro Cuore che, dopo qualche ritocco architettonico, fu adattata al culto islamico: oggi è la grande moschea che campeggia in piazza Algeria.
Monsignor Bugeja, nato nel 1962 a Xaghara, nella diocesi di Gozo, è il vicario apostolico di Tripoli dal 2017, ma già due anni prima il Papa lo aveva chiamato ad affiancare Giovanni Innocenzo Martinelli (scomparso lo scorso dicembre) come coadiutore del vicariato. «All’inizio è stata molto dura», ammette il vescovo. La sua Libia, infatti, è quella del post Gheddafi, ucciso nell’ottobre del 2011: quella delle violenze fuori controllo e degli attacchi contro le minoranze religiose (il brutale assassinio di 21 cristiani copti per mano dei miliziani dell’Isis è del 2015), quella della lunga “battaglia di Bengasi” per liberare la Cirenaica dai fondamentalisti e poi dello stallo istituzionale che, fino ad oggi, vede il Paese suddiviso formalmente tra l’autorità del governo di Tripoli guidato da Fayez Al Serraj e le milizie dell’uomo forte di Bengasi, Khalifa Haftar.
In mezzo, gli equilibri di potere legati alle influenti tribù locali e, naturalmente, la presenza ingombrante dei tanti attori esterni che non intendono perdere l’opportunità di accaparrarsi la loro fetta della torta libica. Un mix letale il cui risultato sono caos e instabilità. Che toccano tutti e, in modo particolare, proprio i cristiani.
«Dopo che i copti e gli ortodossi di varie confessioni sono andati via in seguito alla crisi del 2014, siamo rimasti solo noi cattolici, insieme a una piccola comunità di anglicani e una pentecostale». Se nel 2010 i battezzati erano 150 mila, oggi si aggirano sui tremila, su 6,3 milioni di abitanti.
Monsignor Bugeja, da chi è composto il suo gregge?
«Siamo al 100% stranieri. Soprattutto filippini, che sono impiegati come infermieri negli ospedali, e africani provenienti perlopiù dalla Nigeria e dal Ghana, oltre a pochi dal Sud Sudan. E poi pachistani e indiani. Al loro fianco, a Tripoli, siamo solo io, un altro frate francescano, fra Magdy Helmi, e otto suore di Madre Teresa, impegnate come volontarie in due istituti governativi al servizio di cittadini libici con problemi mentali. Alcuni anni fa c’erano anche le Figlie della carità, che operavano in una struttura per minori bisognosi, ma poi sono partite per motivi di sicurezza.
A Bengasi, sede dell’altro vicariato, la situazione è ancora più precaria: la chiesa è stata distrutta dai bombardamenti per cacciare l’Isis che aveva stabilito il suo quartier generale nell’area. Le religiose sono tutte andate via: rimangono due frati, più uno nella vicina Al Beida. La comunità è formata da un drappello di filippini e africani subsahariani, che si ritrovano per le celebrazioni in una piccola sala del Children’s hospital. Lì bisogna ricominciare tutto da capo».
Qual è la vita quotidiana della Chiesa a Tripoli?
«Le nostre attività si svolgono tutte all’interno dei confini parrocchiali. La liturgia domenicale si celebra al venerdì, giorno di festa per i musulmani. Abbiamo due Messe, una per i filippini e una per le altre comunità, a ognuna delle quali partecipano di solito tra i 400 e i 500 fedeli, anche se l’affluenza dipende dalla situazione in città: quando nei dintorni ci sono scontri o disordini le persone si chiudono in casa. Nel pomeriggio c’è il catechismo: quello per i bambini è gestito dalle suore mentre gli adulti sono seguiti da alcuni laici preparati, affiancati da me. Gli africani poi organizzano incontri di studio della Bibbia, prove delle corali, ma anche momenti di mutuo aiuto su base comunitaria, per sostenere qualcuno in una particolare condizione di bisogno: loro conoscono bene le singole situazioni e, in caso di necessità, sanno che possono venire da me a chiedere supporto. Al venerdì c’è anche un piccolo mercato autogestito, dove si possono trovare vestiti, cibo…».
Qual è il volto di questa comunità?
«È mutevole, perché le persone sono qui per lavoro e rimangono solo finché dura il loro contratto. Anche quelli che hanno un impiego abbastanza stabile, come le infermiere filippine, dopo alcuni anni se ne vanno, per non parlare dei moltissimi in transito, che vorrebbero poi raggiungere l’Europa… L’instabilità è la norma. Le famiglie non sono molte, spesso sono divise, con il padre a Tripoli e la madre nel Paese d’origine. Eppure, nonostante tutto ogni mese abbiamo sei o sette battesimi di bambini di origine africana! Poi, però, quando i piccoli raggiungono i 5 o 6 anni di età i genitori generalmente li rimandano in patria con i nonni, perché in Libia dovrebbero frequentare una scuola privata, a pagamento».
Ma come è possibile continuare a vivere in un Paese in preda al caos?
«Naturalmente in tanti decidono di andarsene. Fino a pochi anni fa la nostra chiesa era frequentata da polacchi, sudcoreani, italiani, maltesi, arabi… e le celebrazioni erano suddivise sull’intero weekend, tre giorni, perché altrimenti non c’era spazio per tutti. Oggi non è più così, eppure la vita nel centro città va avanti in modo abbastanza normale, gli uffici e le scuole restano aperti anche quando in periferia si verificano scontri. Certo, ci sono gravi disagi da sopportare. L’elettricità manca per otto, anche dodici ore al giorno, soprattutto in estate, quando la temperatura raggiunge i 50°. E ci sono persone che devono affrontare enormi problemi, sul fronte economico ma anche su quello dei diritti umani».
Che cosa riuscite a fare per loro?
«Abbiamo un piccolo ufficio Caritas, con una coordinatrice laica, che apre al venerdì e al martedì, grazie al quale cerchiamo di dare una mano a chiunque si rivolga a noi. Quelli che vengono a chiedere supporto sono soprattutto eritrei, cristiani, e sudanesi, musulmani. Se non sono registrati all’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) li aiutiamo a registrarsi, oppure li indirizziamo all’Organizzazione internazionale per le migrazioni se vogliono tornare al loro Paese. Abbiamo anche una piccola clinica di primo soccorso in cui operano una dottoressa e due infermiere. Quando poi ci troviamo di fronte un caso grave ci appoggiamo ad alcune ong attraverso le quali riusciamo a ricoverare la persona malata in ospedale, mentre nel caso di donne sole con gravidanze problematiche possiamo contare sull’intervento dell’organizzazione danese Danish Refugee Council. Dal punto di vista del sostegno materiale, cerchiamo di dare una mano a chi ha bisogno di coprire il costo dell’affitto o, grazie anche a Caritas italiana, aiutiamo gli studenti a pagare la retta della scuola. Dobbiamo però fare sempre attenzione a dare denaro, perché alcuni lo potrebbero poi usare per pagare i trafficanti di uomini con l’illusione di arrivare in Europa».
Conoscete di persona la situazione dei famigerati centri di detenzione per i migranti?
«Qualche anno fa il nostro “Social service” era autorizzato a fare visita alle persone rinchiuse nei campi e ai detenuti nelle prigioni, per distribuire cibo e pregare insieme. Oggi non è più possibile. Tra i nostri parrocchiani, tuttavia, ci sono alcuni cittadini dell’Africa subsahariana che sono stati in questi centri di detenzione e che sono riusciti a uscire, magari perché hanno pagato, o perché erano malati. Ora queste persone che hanno vissuto esperienze traumatiche sentono la chiesa come un posto sicuro, che le accoglie e dove possono incontrare qualche connazionale. Un luogo in cui stanno bene e si sentono protetti. La Libia sta attraversando un momento molto difficile per gli stessi cittadini locali, immaginiamoci per gli stranieri!».
È per loro che avete deciso di restare?
«La nostra è una Chiesa di presenza, limitata. Certo, dà coraggio ai cristiani che resistono. Ma il fatto che siamo rimasti quando tutti sono andati via è apprezzato anche dalle autorità governative, che guardano a noi come al Vaticano (la Santa Sede ha ristabilito le relazioni diplomatiche con la Libia nel 1997). La nostra comunità, seppur piccola, è riconosciuta ufficialmente e non è invisibile. Al contrario: in prossimità delle feste cristiane spesso riceviamo le visite dei media locali che chiedono un’intervista, fanno fotografie. Queste immagini vengono diffuse nella società libica, mostrando che il Paese accoglie anche presenze non musulmane».
Come celebrerete la Pasqua a Tripoli?
«Il Venerdì santo la funzione della Passione sarà doppia: per i filippini e per gli africani. È necessario per ragioni di spazio, visto che ad ogni celebrazione aspettiamo 6 o 700 fedeli. La Veglia di Pasqua sarà animata dai cori parrocchiali, gestiti dalle diverse comunità: uno in francese e tre in inglese. All’interno della chiesa le feste sono vive, sentite. Però, appena si mette piede fuori dalla struttura non significano niente: il Paese è completamente musulmano e anche Pasqua è un giorno come tutti gli altri. Finita la Messa, ci si fanno gli auguri e poi la gente se ne va a casa, tutto finisce. Per me è stato molto difficile abituarmi».
Pensa che riuscirà a vedere una Libia finalmente in pace?
«Il peccato originale di questo Paese è che è così ricco! Tutti vogliono la loro fetta. I libici vorrebbero trovare da soli una soluzione politica ma le potenze straniere non accettano di fare un passo indietro. Il problema è che gli accordi internazionali spesso sono vani. L’embargo è una farsa: le armi continuano ad arrivare indisturbate, mentre l’Europa non parla a una sola voce ma procede in ordine sparso, con ogni Stato membro intento a perseguire il proprio interesse. Se l’Onu sta provando a mediare tra le fazioni, per vedere risultati concreti ci vorranno tempi lunghi. Eppure, resto speranzoso. La pace arriverà e noi saremo qui ad accoglierla».