Una giornalista che per tre anni ha vissuto nella metropoli asiatica e il giovane leader della protesta. Un incontro – tra molti altri – al centro di un libro che racconta in presa diretta una rivoluzione in corso
Pubblichiamo un’anticipazione del libro “Trenta giorni a Hong Kong – Frammenti di una protesta” (Ed. Scalpendi, Milano 2020) di Lisa Jucca, editorialista per Reuters Breakingviews. Il libro fa parte di un cofanetto che prevede anche un volume fotografico con le immagini dei manifestanti realizzate da Nicola Lombardi, fotografo italiano che vive a Honk Kong e che ha documentato la protesta dal di dentro.
Joshua Wong ha lo sguardo stanco. I capelli nerissimi e a spazzola. Mi compare davanti quasi all’improvviso nel bar semivuoto di Admiralty dove abbiamo deciso di incontrarci oggi pomeriggio. È esile e vestito con una semplice camicia di denim e pantaloni neri: mi è difficile credere che questo ragazzo occhialuto sia la figura politica locale più temuta da Pechino.
A soli 23 anni, Joshua ha già molto vissuto. È stato il volto più noto della “Rivoluzione degli ombrelli”. I suoi discorsi appassionati a favore del suffragio universale hanno elettrizzato migliaia di giovanissimi studenti, spingendoli a boicottare le lezioni e a occupare per quasi tre mesi le zone chiave della città. Per le sue battaglie politiche ha subito l’arresto e anche il carcere. «La mia mancanza di libertà oggi è il prezzo che sapevo avrei dovuto pagare per la città che amo», ha scritto mesi fa dalla prigione. Nato un anno prima della restituzione di Hong Kong alla Cina, Joshua è il simbolo della generazione cresciuta sperimentando sulla propria pelle il modello “Un Paese, due sistemi”.
All’apparenza freddo, ha la rivoluzione nel sangue. A soli 14 anni, quando ancora frequentava le scuole superiori, ha fondato con alcuni compagni il movimento studentesco Scholarism. Per mesi, i ragazzi di Scholarism hanno combattuto con marce e sit-in la prevista introduzione di un nuovo programma scolastico volto a educare i giovani di Hong Kong all’amore per la madrepatria cinese e visto come un tentativo di propaganda mascherata a favore del partito comunista. Questa protesta, al contrario di quella del 2014, ha avuto un sorprendente successo e ha costretto il governo a recedere dall’intento. Ora Hong Kong è al centro di un nuovo conflitto, più faticoso e più incerto dei precedenti, che Joshua sostiene in modo molto differente rispetto al passato.
«Non sono il leader di questo movimento di protesta. Sono solo uno dei facilitatori. Il mio compito è incoraggiare la gente a continuare a unirsi a noi in questa difficile lotta. Il mio sforzo è concentrato nell’essere la voce della gente di Hong Kong di fronte alla comunità internazionale, per raccogliere sostegno e mettere Pechino sotto pressione a livello globale», mi dice davanti a una tazza di tè.
Come ambasciatore della protesta, si è più volte recato all’estero. Il mese scorso è stato a Washington per dare una testimonianza al Congresso statunitense sulla situazione attuale a Hong Kong. Lo ha accompagnato Denise Ho, indomita cantante pop cantonese e attivista che da cinque anni è bandita dalla Cina per aver appoggiato, con le sue canzoni e pubblicamente, la “Rivoluzione degli ombrelli”. Qualche giorno prima Joshua era stato in Germania, dove era riuscito a incontrare privatamente il ministro degli Affari esteri tedesco. A fine novembre ha poi in programma una tappa a Milano e a Roma, per parlare in Senato della situazione di Hong Kong.
La speranza di Joshua è che il Parlamento americano possa approvare l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act e il Protect Hong Kong Act, due proposte di legge volte a esercitare un controllo esterno sull’esercizio dei diritti umani a Hong Kong e a limitare l’esportazione di armi o altri strumenti che possano essere usati per reprimere violentemente le proteste. I due progetti legislativi sono soprattutto uno strumento politico per indebolire la Cina. Il primo dei due ha già ricevuto il via libera da una commissione parlamentare bipartisan e presto potrebbe diventare legge.
«Queste proposte di legge, se approvate, invierebbero un messaggio importante: direbbero che Hong Kong non è sola e che è tempo che Pechino capisca che la comunità globale è dalla parte di Hong Kong», mi spiega Joshua. Ma il sostegno a parole della comunità internazionale è poco efficace per risolvere una crisi politica e istituzionale interna alla Cina.
Dalle finestre del bar in cui ci troviamo posso scorgere distintamente l’edificio del Legislative Council, il mini-Parlamento di Hong Kong. Oggi l’assemblea legislativa, i cui lavori sono stati sospesi dopo l’assalto del 1° luglio, è stata riaperta per permettere a Carrie Lam di leggere il suo discorso programmatico per l’anno a venire.
C’era molta attesa. In molti temevano che non si presentasse per timore di essere contestata. Già in mattinata l’attivista Long Hair e un gruppetto di sostenitori avevano organizzato una piccola protesta contro la leader appena fuori dall’edificio.
Carrie Lam alla fine è entrata in Parlamento, rigida in un tailleur rosa cipria, forse consapevole del disprezzo di gran parte dell’aula. I parlamentari dell’ala democratica l’hanno accolta urlandole contro: «Carrie Lam, hai le mani sporche di sangue». Il riferimento è ai due ragazzi feriti dalla polizia nei giorni scorsi, ma anche al grave assalto, per mano ignota, a Jimmy Sham, il trentaduenne leader del Civil Human Rights Front.
Il discorso della leader è stato più volte interrotto da grida e insulti. Un parlamentare ha proiettato lo slogan: “Cinque domande, non una di meno” alle sue spalle, facendosi espellere dall’aula. Quando l’assemblea degenera in tafferugli Carrie Lam decide di lasciare l’emiciclo.
Una copia preregistrata del suo discorso verrà trasmessa un’ora dopo a reti unificate. È un discorso da burocrate, non da politico, che spreca in modo plateale l’occasione per cercare di sanare la ferita che si è creata tra una larga parte della popolazione e il governo. Carrie Lam respinge in modo netto le richieste dei manifestanti, preferendo buttare la questione sul sociale. Promette un piano più incisivo per risolvere il problema dei prezzi insostenibili degli immobili e la riduzione di alcune tariffe sui mezzi di trasporto.
È una risposta che riflette l’interpretazione di parte cinese delle ragioni della protesta. La stampa di Pechino ha cercato di presentare la rivolta di Hong Kong come il prodotto della grande diseguaglianza sociale. È un attacco al sistema di capitalismo sfrenato in vigore a Hong Kong, e implicita conferma della superiorità del regime comunista cinese.
Ma questa risposta non affronta i bisogni più ampi della popolazione, che sono mutati nel tempo e ora vanno al di là dell’aspetto puramente materiale. Colpisce la mancanza di empatia. Nel momento più buio per Hong Kong dal suo passaggio alla Cina, il capo della città rifiuta un vero dialogo con chi protesta e chiede maggiore democrazia.
Carrie Lam «non ha nessuna intenzione di trovare una soluzione o una via di uscita. Continua a innescare una tensione crescente. È quello che è successo con il divieto di coprirsi il volto, che è terribile e non rispetta la separazione dei poteri», mi spiega Joshua.
In questi quattro mesi «abbiamo assistito a una crisi politica e per certi versi anche umanitaria, a una repressione dei diritti umani e del diritto di protesta, specialmente per quanto riguarda le nostre richieste di libere elezioni e contro la brutalità della polizia».
«Su questo c’è un ampio consenso a Hong Kong, che continuerà a trascinare il movimento», mi dice Joshua Wong.
Gli chiedo se sia d’accordo con la crescente aggressività dei contestatori. Joshua ammette che la protesta, partita pacificamente a giugno, sta diventando progressivamente più violenta. Ma ne attribuisce la ragione alla frustrazione dei manifestanti di fronte al rifiuto del governo di voler accondiscendere alle loro richieste.
«È sicuramente vero che c’è stata un’escalation di violenza nelle scorse settimane», ammette. Il problema, mi spiega Joshua, è che ci sono voluti ben tre mesi per raggiungere l’obiettivo di forzare il governo al completo ritiro della proposta di legge sull’estradizione. La seconda priorità è poter creare una commissione indipendente che indaghi sulle azioni della polizia e riformi la polizia stessa.
«Per il secondo obiettivo continueremo a combattere. So che la gente nel mondo potrebbe non essere d’accordo con il comportamento dei manifestanti, anche se l’intenzione è quella di proteggersi. Ma prima di mettere in discussione la strategia, la tattica e il comportamento dei manifestanti, credo che sia importante che la comunità internazionale si focalizzi sulle cause alla radice e sulle domande politiche. Le forze antisommossa reprimono la gente su ordine del governo. Finché il governo non è eletto dal popolo, questa situazione continuerà. Riformare la polizia è il primo passo, ma il secondo è che la gente possa avere il diritto di eleggere il proprio governo; questa è la promessa fatta a Hong Kong nella dichiarazione sino-britannica».
Per Joshua Wong, la prossima vera sfida saranno le elezioni distrettuali del 24 novembre. Diversamente dall’elezione del Chief Executive e dei membri del Parlamento, qui tutti i residenti possono esprimere la loro voce perché il voto è a suffragio universale. «È l’unico momento istituzionale che permette alla gente di esprimere il proprio credo politico. Il livello di affluenza di questa elezione sarà un elemento molto importante».
Joshua si è presentato come candidato. Ma teme di non essere ammesso a concorrere. Il governo sta vagliando le credenziali dei candidati – se ci sono dubbi sulla lealtà alla Cina, si può essere squalificati. Il livello di scrutinio nei suoi confronti è stato particolarmente intenso. I dubbi, mi spiega, sono legati alla fondazione nel 2016 del partito Demosisto, di cui Joshua è ancora il segretario. Demosisto ha in passato inneggiato all’autodeterminazione.
Questo livello di intrusione è una novità per Hong Kong, e secondo Joshua un ulteriore sintomo di come lo Stato di diritto nel territorio si stia piano piano erodendo. Nel 2016, nelle prime elezioni parlamentari dopo la “Rivoluzione degli ombrelli”, a Nathan Law – poco più vecchio di Joshua e come lui leader di quella protesta e di Demosisto – venne per lo meno permesso di candidarsi senza troppe domande, anche se successivamente fu squalificato ed espulso dal Parlamento. Ora le cose si fanno più complesse. Lo screening preventivo rischia di sbarrare a Joshua Wong la strada per il distretto di South Horizons, dove è cresciuto.
Questa tattica sembra rispecchiare il modello di democrazia proposto da Pechino per la votazione del capo politico di Hong Kong – l’idea era di far votare tutti i residenti, ma restringere la scelta a candidati approvati dal partito.
Joshua Wong si sente il rappresentante di quella generazione nata a ridosso del passaggio alla Cina, che ha sperimentato il fallimento del modello “Un Paese, due sistemi”. Per Joshua, i due sistemi separati non sono mai davvero esistiti, e l’oppressione del governo cinese è sempre più evidente.
È convinto che se il presidente Xi Jinping decidesse di usare la forza per reprimere Hong Kong, questo causerebbe una sempre maggiore adesione al movimento di protesta in atto. «Spero che Hong Kong possa essere un luogo con democrazia e autonomia – mi dice prima di salutarmi -. Il prezzo della libertà è alto. Ma liberare la gente dalla paura è l’obiettivo a cui aspiro e che voglio perseguire».