Il Covid-19 ha abbassato il tiro e ha cominciato a colpire persone più giovani, poco più che bambini. ci sentiamo poveri e impotenti e la nostra preghiera si riduce allo stesso brusio, alla stessa questua. Di un senso. Di un miracolo che risponda a tanto dolore innocente
«Ci vorrebbe un miracolo, padre Alberto», mi hanno scritto dall’Italia. G., dodici anni, ha contratto il virus e sta lottando tra la vita e la morte. Il Covid-19 ha abbassato il tiro e ha cominciato a colpire persone più giovani, poco più che bambini. Portiamoci gli uni gli altri nella preghiera, nell’ampio mondo dei nostri cuori. Non si dovrebbe mai soffrire da soli. Per non impazzire. Anche se in questi giorni ci sentiamo poveri e impotenti e la nostra preghiera si riduce allo stesso brusio, alla stessa questua. Di un senso. Di un miracolo che risponda a tanto dolore innocente.
Molti tornano alla letteratura, per non cedere al mutismo. Siamo umani e cerchiamo parole. Si comincia con Camus che ne La peste fa parlare il dottor Rieux, «mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati». Poi si passa a Dostoevskij con Ivan Karamazov che non può accettare il dolore dei bambini come prezzo da pagare per «comprare» un’armonia futura. Se è così – ribatte – «non voglio l’armonia… preferisco rimanere con le mie sofferenze … hanno fissato un prezzo troppo alto». A volte si va a Saramago in Cecità, perché siamo tutti ciechi, ora. Anche «quell’uomo inchiodato alla croce con un benda bianca a tappargli gli occhi…».
Mi sovviene invece Primo Levi, internato ad Auschwitz, quando si imbatte nel piccolo Hurbinek, un bambino come tanti nel campo: «Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz». «Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere…» (1).
Sembra che sul piccolo Hurbinek si fosse accanito il peso della storia e che il peccato di tutti i secoli precedenti avesse trovato in quel piccolo corpo il modo di mostrarsi in tutta la sua brutalità. Ne sono sicuro, il suicidio di Primo Levi ha a che fare con quegli occhi che «saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta» a cui lui stesso non ha saputo rispondere se non togliendosi la vita per andargli incontro.
Penso anche a don Carlo Gnocchi e al piccolo Marco, unico superstite di un gruppo di bambini morti in seguito allo scoppio di una bomba. Marco perse le gambe, un occhio e fu necessario sottoporlo a diverse operazioni chirurgiche. Don Carlo fece di tutto per aiutarlo «a comprendere la somiglianza che esiste tra il suo dolore e quello di Gesù, la preziosità che egli può conferire alla sua sofferenza, per sé e per gli altri, inserendola in quella di Cristo…» (2). Ma, anche qui, non so se è bastato. Se basta. Non c’è tempo per dirsi queste cose… Avremmo dovuto prepararci prima. Per non trascurare «il bisogno della parola».
Anch’io come il curato di Bernanos, «aspettavo che Iddio m’ispirasse una parola, una parola da prete: avrei pagato quella parola con la mia vita, con quel che mi restava di vita» (3). Ma invano. Sento però che c’è una sola via di uscita. Una sola. Quella che E. Mounier di fronte alla figlia malata ha esplorato e descritto per noi. Ne facciamo tesoro. Sono solo parole. E fede. Fede e parole.
Anche se «le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza… Si tratta di un segreto inquietante della Provvidenza… che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un pò di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore… ogni colpo più duro… una nuova elevazione … una nuova richiesta di amore… non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono, giorni pieni di una grazia sconosciuta… il miracolo non è rifiutato a chi lo accetta … sotto tutte le sue forme, anche sotto quelle invisibili, anche sotto quelle crocifisse, anche se si trattasse della fine… Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi a un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno… e mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione… Lei è un mistero di sacrificio, un sacramento nascosto in un letto di malattia … Ormai lei è una grande porta di luce, una porta aperta, non una porta chiusa» (4). Si chiamava Françoise.
Si chiamava Hurbinek. Si chiamava Marco.
Si chiama G. e ha 12 anni. L’età di Gesù ritrovato nel tempio. Come se anche G., come Gesù, di fronte a mamma e papà che lo cercano, dovesse rispondere allo stesso modo, «non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Forza G.!
1. P. Levi, La tregua, edizione e-book.
2. C. Gnocchi, Il dolore innocente, Milano 2016, 40.
3. G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 225.
4. Cfr. E. Mounier, Lettere sul dolore, Milano 2005.