Pur concorde con tutte le precauzioni contro il virus, allo stesso tempo mi chiedo chi saprà sapientemente dosare queste norme preventive perché quella distanza non diventi a lungo andare definitiva indifferenza o perché quella mascherina protettiva non diventi a sua volta definitiva condizione dell’essere
Pur lontano dall’Italia, mi pare di capire che tra le disposizioni prevalenti per scongiurare il ritorno della pandemia, ve ne sono due, ripetute e ribadite più di altre, l’uso della mascherina, fino a precisare a quale altezza del volto deve essere posta, e la distanza sociale, fino a stabilire i centimetri da interporre tra le persone. Sono disposizioni legittime.e nondimeno hanno a che fare con il volto e con il con-tatto tra di noi. Cioè con l’ABC delle relazioni, delle amicizie, degli amori.
Gli stessi numeri, dei positivi al tampone, dei ricoverati, dei guariti e dei morti, pur credibili, durante i notiziari sono sempre dosati in modo tale che nessuno possa mai tirare un sospiro di sollievo. Sembrano, ma credo di sbagliarmi, utilizzati per mantenere un clima mesto, dimesso, malaticcio.
Non mi interessano le dietrologie, così come non parlo a partire da una posizione politica o mosso da intenzioni seconde, quanto dando voce all’umano che mi abita. Ché alle maschere preferisce i volti e alla distanza sociale preferisce la vicinanza. Pur concorde con tutte le precauzioni contro il virus, allo stesso tempo mi chiedo chi saprà sapientemente dosare queste norme preventive perché quella distanza non diventi a lungo andare definitiva indifferenza o perché quella mascherina protettiva non diventi a sua volta definitiva condizione dell’essere, bavaglio che impoverisce la comunicazione tra di noi? Cioè fino a quando dovremo considerare la terapia preventiva in atto come giusta e non spropositata rispetto al fine da raggiungere, se anche le cifre di morti, contagi e ricoveri possono prestarsi a manipolazioni di sorta, perpetuando con esse uno stato permanente di paura e distanza sociale?
Vorrei soffermarmi proprio sulla “distanza sociale” che senza dubbio va “osservata” per proteggere se stessi e gli altri. Si tratta di una distanza da intendersi positivamente come forma prima di attenzione a sé e agli altri. Ma vorrei per un attimo riprendere quello che Zygmunt Bauman sosteneva in almeno due dei suoi scritti. Mi riferisco a Modernità e Olocausto (Bologna 1992) e Le sfide dell’etica (Milano 1996). In questi saggi il noto sociologo si è occupato della tragedia della Shoah cercando di indagare non tanto sui motivi quanto sulle condizioni sociali che la resero possibile. Al di là dei motivi politici, ideologici, economici, appunto, Bauman si è chiesto che cosa ha reso possibile una tale mobilitazione di forze, fino a una nazione intera, determinata a partecipare attivamente o tacitamente all’eccidio che sappiamo?
Il tema è enorme, complesso. L’olocausto ha obbligato la teologia, la filosofia e tutte le scienze dell’uomo a riformulare i propri paradigmi di pensiero e soprattutto a superare una concezione manichea del male, come se i colpevoli fossero stati solo le èlite al potere o un manipolo di psicopatici. Note sono le parole di Hanna Arendt quando nel suo La banalità del male, descrive la coscienza di Otto Adolf Eichmann, tra i massimi responsabili dell’Olocausto, «come un contenitore vuoto; essa non aveva un proprio linguaggio, ma articolava la lingua della “società rispettabile”».
Quel male che sembrava attribuibile solo a una cerchia ristretta di persone in realtà aveva infettato milioni di cittadini pronti a far parte dei sistemi di genocidio come semplici funzionari, ligi e fieri di compiere il proprio dovere. Di lì la famosa espressione, la banalità del male, posta a titolo del reportage della Arendt sul processo tenutosi a Gerusalemme che portò alla condanna a morte di Eichmann. Questi era in fondo un uomo normale, non particolarmente cattivo o malvagio, uomo banale come tanti, pronto a fare la propria parte dentro un sistema che lo aveva formato, indottrinato e autorizzato ad agire così. La voce della sua coscienza era stata sostituita dal linguaggio del sistema e lui era diventato uno tra i suoi più efficienti funzionari. Come tanti altri uomini obbedienti e disciplinati, ne avrebbe seguito pedissequamente le norme, con naturalezza e normalità.
Per questo Bauman affonda la sua ricerca storica e sociologica dimostrando come il nazismo fosse riuscito a vincere la naturale ritrosia di chiunque all’omicidio, attraverso una razionale produzione della distanza sociale e una sistematica propaganda di caccia all’untore – diremmo oggi – che rendeva alcune categorie, quelle additate dal sistema, «figure dell’estraneità». Non solo, si trattava anche di insinuare la percezione secondo la quale il cittadino modello sarebbe stato il buon funzionario che garantiva le procedure di sterminio e che pervertiva il suo senso di responsabilità in competenza tecnica perché non si inceppasse il meccanismo.
Quanto alle mascherine, ci vorrebbe altro spazio, ma se con il filosofo di origine ebraica Emmanuel Lévinas consideriamo che «l’epifania del volto è etica», allora temo che all’oblio dei volti, coperti fin sopra il naso (!), potrebbe seguire presto anche il mutismo tragico dei cuori. «Saper difendere le nostre anime» è stato uno degli ultimi moniti di Primo Levi. Ne facciamo tesoro!